HUMAN ANIMAL AL PICCOLO TEATRO GRASSI DI MILANO
“Se sei immune alla noia, non c’è niente che tu non possa fare.”
Il 16 settembre a Tramedautore al Piccolo Teatro Grassi una grande domanda: Cosa vuol dire essere umani. Uno spunto: “Il re pallido”, l’ultimo libro, pubblicato postumo, di David Foster Wallace. E si parte. Gli attori-autori Nicola DI Chio, Paola Di Mitri e Miriam Fieno, con “Human Animal”, ci accompagnano in un viaggio dal tono documentaristico nelle vite di tre impiegati “qualunque” dell’agenzia delle entrate.
In uno schermo a centro palco vediamo proiettati momenti di vita quotidiana e segreti dell’ufficio, ricostruito in una specie di set dietro lo schermo stesso. Un’alluvione ha rovinato dei documenti e gli impiegati tentano di recuperarli, si alternano nel ruolo di cameraman e a turno abbandonano la bidimensionalità dello schermo per presentarsi e monologare in proscenio, per poi nascondersi di nuovo. Veniamo mitragliati da una lista di nomi, dal sapore plautino, di persone la cui unica occupazione è, inesorabilmente, girare fogli. La loro vita è scandita dal coro di fogli che vengono girati in eterno. La tematica della noia sembra essere il tavolo da gioco in cui i personaggi con i loro sogni infranti e frustrazioni incontrano gli attori, che dichiarano schiettamente di non voler annoiare il pubblico. E rompono la convenzione. Portano via lo schermo, “licenziano” i personaggi; si accendono le luci in sala e ragionano insieme al pubblico. E si fanno la didascalia, con gestualità e dizione approssimative proclamano che ogni essere umano è unico, ma che gli individui dell’era moderna condividono, in fondo uguali nevrosi e fragilità. Allora si può tornare a giocare con la finzione. Un personaggio, un impiegato pugliese, diventa una sorta di bambolina voodoo che dà modo agli attori di spillare ragionamenti ed esperimenti e al pubblico di identificarsi e interrogarsi. L’umanità può evitare l’alienazione di fronte a vent’anni di lavoro identico a se stesso? Cosa fa una persona quando la sua vita non è nient’altro che questo? Fugge? Si ferma in città a guardare le vetrine? O va a coltivare il suo sogno ormai infranto di essere un tennista professionista? Oppure ancora torna a casa, dalla sua amata famiglia, di cui parla in continuazione, a guardare un documentario sugli scimpanzé? L’unica soluzione sembra sia abbandonare tutto. Tutto. L’ufficio, le pratiche, la noia, il rituale pigro del caffè a metà mattina. E viaggiare. Ma ben presto l’impiegato pugliese scopre la fallacia della propria scelta, quando si accorge di provare nostalgia per quel caffè. Dunque, cosa inventarsi ancora? Quando né i personaggi né gli attori hanno più idee, si ritorna alla citazione.
L’idea di David Foster Wallace in “Il Re Pallido”, viene enunciata, e non si cerca più di metterla in pratica. Vengono proiettate le sue ultime parole. Risalgono al 2008. Lo scrittore, con la sua bandana, parla al pubblico prima di suicidarsi. Così anche lo spettacolo si suicida, lasciando spazio solo agli applausi di un pubblico che, almeno lui, non si è annoiato.
I.R.