“Hamlet Puppet” all’Angelo Mai a Roma: progetto sonoro per danza e parola
“Amore mio, è difficile da questo fondo, da questo finale, dire come mi manchi, come immenso tu sei nel mancare …”, è da un simile affondo poetico, in un’atmosfera di dormiveglia greve e malinconica, che ha inizio la ballad-performance “Hamlet Puppet” di Balletto Civile, andata in scena all’Angelo Mai a Roma, dal 2 al 4 novembre. Attraverso le parole di Mariangela Gualtieri, lo Spettro del padre di Amleto (Michela Lucenti) fa la sua apparizione, chiede vendetta per la sua morte, in un mondo, ormai, fuori dai cardini, in cui l’autorità paterna viene meno, e i figli sono costretti a farne i conti.
Dopo “Killing Desdemona”, “Before break”, “L’amore segreto di Ofelia”, la compagnia si lascia nuovamente suggestionare dalla scrittura fisica, e dall’andamento estremamente attivo del testo Shakespeariano, cercando di narrare, questa volta, la vicenda di Amleto, da un punto di vista molto preciso, quello del fantasma paterno. E lo fa raccontandone la storia, con una drammaturgia danzata e cantata, le immagini-video di Giorgina Pi, e con un lavoro centellinato sull’aurea della presenza, sulle azioni fisiche, e sulle relazioni dei corpi in scena, seguite da Maurizio Camilli, in qualità di assistente alla creazione. Nella voce di Michela Lucenti si ritrova rigore e sperimentazione, una matassa dalle innumerevoli possibilità sonore, che è capace di spaziare, fino a raggiungere tonalità notevoli, e di aggrovigliarsi su note più basse, cavernose, per sostare là dove la parola muore. Nell’atto cantato il corpo si fa radiografia di ciò da cui è stato attraversato, strumento che vibra, e segue, selvaggio, una partitura musicale dalle sfumature rock, incoraggiate dalla chitarra elettrica, con musiche originali di Paolo Spaccamonti, disegno sonoro di Tiziano Scali / Paolo Panella, e supervisione sonora di Valerio Vigliar. È un corpo altro la voce di Michela, che sposta aria sul palcoscenico, mentre alle sue spalle il “Fantoccio” Amleto (Michele Calcari) cerca disperatamente di svincolarsi dai fili di un destino sadico; i suoi movimenti sono convulsi, e cercano di rispondere, in parallelo, agli urli per la paura, alle esclamazioni, e alle grida di dolore che lo Spettro svuota al microfono, in un rimbombo continuo e frastornante.
È uno spaventapasseri questo Amleto, che corre freneticamente, cade, fa tonfi, avvolto da una pelliccia, e recita in dialetto nordico “l’essere o non essere”. I suoni sono barbarici, in una lingua arcana, che non conosce codici, una lingua senza linguaggio che si fa interiore, testimonianza di un peso insopportabile, una voce che mette in ginocchio il corpo: “Se questa mia troppo solida carne potesse sciogliersi in rugiada, come insipidi e inutili mi appaiono le piatte convenzioni di questo mondo…” sembra dirci. Le ultime battute, di questa rivisitazione della tragedia, sono affidate ad una danza in stile orientale eseguita da Michela Lucenti. Raffinata, nel portamento, con un grosso ventaglio bianco in mano, e un lungo impermeabile che prende forma su di lei ad ogni passo, la Lucenti si muove con una lentezza satura di energia, e un’intensità di movimenti che spezzano di tanto in tanto il silenzio sospeso in sala. Avanza in un flusso energetico, corpo e voce si cancellano, perché possano poi emergere nella sostanza, in un’epifania di senso, in una danza dell’esserci.
Diana Morea