Habemus Paolo Nani, “La Lettera” al Teatro Gobetti di Torino
Un uomo prende posto, assaggia del vino, prende carta e penna: solo dopo aver chiuso e affrancato la busta si rende conto che mancava l’inchiostro, perciò butta via ed esce (Normale). Terra da lettera la raccoglie, bianca pagina, bollofranco, incorniciata nonna di fotografia la rovescia (Al contrario). Pubblico! Sedia! Tavolo! Tappo di sughero? Bicchiere di vino! Carta! Penna! Nonna? Carta piegata! (Sorprese). Una volta, anzi due al suo posto, stappa la bottiglia, la apre di nuovo, versa un po’ di rosso, ancora un po’, un pochino di più. La lettera, piega su piega, dopo piega, va a finire nella busta e questa in un’altra busta (Ripetizioni). Uff… Andatelo a vedere – al Teatro Gobetti di Torino fino al 7 aprile – con i vostri occhi (Pigro).
Fatto salvo per il tentativo di sintonizzazione linguistica che costituisce il monologo introduttivo, “La lettera” di e con Paolo Nani ha basso, bassissimo contenuto di parole. Eppur si esprime, e dal 1992 cattura nel suo ritmo il pubblico di ogni paese nel mondo. Ideato insieme al regista Nullo Facchini, lo spettacolo si compone di quindici alterazioni del medesimo episodio, quindici chiavi immaginative per una realtà che si complica, oppone resistenza, germoglia, si dilata, scompare dietro le quinte. Viene spontaneo cercare un confronto con “Esercizi di stile”, da cui è stata presa libera ispirazione. Raymond Queneau attingeva alla colorata matassa del linguaggio per variare il racconto. Anche “La lettera” parte da una trama che rimane identica, ma di momento in momento fila un tessuto narrativo che ha dell’incredibile. Non succede nulla ma accade di tutto, dal meticoloso riavvolgere “Al contrario” l’intera scena, all’esecuzione di “Due cose alla volta” o “Senza mani”, alla vertigine comica di “Ubriaco”, e così via, fino ai cliché del grande schermo (“Horror”, “Western”, “Cinema muto”).
Formidabile nel districarsi in ciò che – solo all’apparenza – tende ad andare fuori controllo, Paolo Nani coinvolge spettatrici e spettatori in una delicata armonia, fatta sì di risate ma anche, soprattutto, di piccole meraviglie. Perché, spiega dopo gli applausi, ”la sequenza è fissa, collaudata, ma il ritmo no. È come il jazz, sempre in gioco”, sempre unico.
Pier Paolo Chini