“GUASTI” – UNA STRUGGENTE MELODIA D’AMORE
Il romanzo d’esordio di Giorgia Tribuiani “GUASTI” (Voland, 2018, pp.113, euro 14) è un libro insolito fin dalle prime pagine perché scandisce il tempo al contrario, dal primo giorno di apertura di una mostra fino al giorno di chiusura. È nell’arco dei trenta giorni di esposizione, da 30 a uno, che inizia e finisce la struggente melodia d’amore della protagonista, Giada, costretta ad andare a trovare il suo compagno, fotografo di fama mondiale prematuramente scomparso, in un luogo insolito e inusuale, quale è appunto la sala espositiva dove il cadavere è esposto, trasformato in opera d’arte, con la tecnica della plastinatura, dal celebre anatomopatologo Dottor Tulp.
Nel countdown dei giorni, i ricordi di tutta una vita si mischiano e si rincorrono, intervallati da incontri con giornalisti, critici d’arte, gente comune, nonché con il premuroso “vigilante del piano di sotto”. Ma se il romanzo di Giorgia Tribuiani è, come lei stessa garbatamente avverte, opera di fantasia e non rappresenta in alcun modo un giudizio sulle opere di Gunther von Hagens, il narrato è purtroppo triste realtà. Il Dottr Tulp del libro esiste davvero ed è l’anatomopatologo tedesco von Hagens, che grazie ad una tecnica ideata nel 1977, la plastinazione, consente la perfetta conservazione dei tessuti e degli organi del corpo umano. Potrebbe essere un ottimo aiuto per gli studiosi ma da qui a trasformare i cadaveri “plastinati” in opere d’arte ce ne corre. Eppure è successo, eppure succede. Centinaia, migliaia di visitatori affollano queste macabre esposizioni in tutto il mondo per quel gusto inspiegabile dell’essere umano ad amare le cose morte, come succede con i tramonti e mai con le albe. Ciò che per vanagloria vorrebbe essere un prosieguo verso l’eternità, congelandosi o meglio plastinandosi in un istante che ricordi la vita, risulta invece essere una totale perdita d’identità, dell’unicità, un ammasso roseo di muscoli privato dal nome esposto al voyerismo macabro di una società malata, dimentica ormai degli accorati versi del Foscolo che, ergendosi a difensore della dignità della morte, si scagliava contro l’editto Napoleonico delle fosse comuni invocando la possibilità di una tomba dove poter portare un fiore, una pietra capace di conservare il nome e il ricordo del caro estinto.
Il romanzo di Giorgia Tribuiani è su questo che ci fa meditare, con la sua scrittura semplice e dolorosa, ci fa amare la protagonista Giada che, non avendo un posto dove poter portare un fiore o versare una lacrima, è costretta a seguire il corpo dell’amato nella giostra delle esposizioni al pubblico. Pagina dopo pagina Giada si rivela la creatura fragile e forte nello stesso tempo, la donna che si sentiva inadeguata di fronte alla grandezza cosmica del proprio uomo, inseguito da critici e giornalisti, glorificato e lodato in vita, ma ridotto proprio per il suo egocentrismo fasullo, a fenomeno da baraccone, a burattino, a zombie cui appare “sprecato” appendere al collo una Nikon, simbolo del suo lavoro e della sua fama. I ricordi di Giada affollano le pagine con una sincerità disarmante e con un amore grande. Questo sì che va oltre la morte e si eternizza in una presa di coscienza lenta ma inesorabile che la brava penna della Tribuiani riesce a rendere così bene, così reale, così vera.
Francesco De Masi