Greta Biasca-Caroni racconta Luigi Pericle: la rivelazione e la spinta postuma
Dopo aver pubblicato l’articolo sulla mostra di Luigi Pericle alla Fondazione Querini Stampalia di Venezia, abbiamo intervistato Greta Biasca-Caroni, che l’anno scorso, assieme a suo marito Andrea, ha fondato l’Archivio Luigi Pericle. Ecco cosa ci ha rivelato.
D.M.A. – Ci racconta come era Pericle? E come è nato l’Archivio? Come siete riusciti ad ottenere la sua casa e la sua collezione?
G.B.C. – Io l’ho incontrato solo una volta. Invece mio marito Andrea lo frequentava fin da piccolo, perché erano vicini di casa qui ad Ascona. Di tanto in tanto Andrea, che da giovane organizzava delle festicciole in casa, andava a trovarlo per chiedergli il permesso di fare un po’ di rumore la sera. Pericle diceva sempre di sì, e poi coglieva l’occasione per parlargli di misticismo. Tant’è che Andrea non sapeva neanche che fosse un pittore, pensava fosse uno studioso di esoterismo. D’altronde, parlavano di oroscopi, di teosofia, di religioni. Non sono stati molti questi incontri, comunque: Pericle era riservatissimo, non usciva mai di casa, e quindi si vedevano per quelle due o tre feste che Andrea dava ogni anno. Io l’ho conosciuto quando eravamo fidanzati: era inverno, lui ci chiamò dalla finestrella di casa sua, e così siamo andati a trovarlo. È stato un incontro breve, abbiamo solo chiacchierato un po’, eppure io me lo ricordo benissimo: era così carismatico, così elegante, gentile, affascinante. Quando poi nel 2001 è morto, noi sapevamo che la casa sarebbe rimasta disabitata, perché lui non aveva eredi. Noi volevamo acquistarla per andarci a vivere, ma per quindici anni lo stato ha perso tempo a cercare eventuali discendenti. Poi è stata messa all’asta, e noi l’abbiamo vinta. E ce l’hanno venduta in toto, per come Pericle l’aveva lasciata: abiti, documenti, libri, tutto. L’abbiamo restaurata, chiaramente, perché dopo quindici anni di abbandono le lascio immaginare come era ridotta. E poi abbiamo trovato i suoi quadri, conservati con cura in alcune casse di legno: lui era conscio del valore delle sue opere, e quindi ha fatto in modo che non si rovinassero. Pensi che quando abbiamo chiamato il restauratore da Brera, è rimasto appena un giorno. E mentre curiosavamo tra le sue cose, Andrea ha trovato alcuni cataloghi, per esempio quelli di Staechelin, che accostavano Pericle a Gauguin, Van Gogh e via dicendo. Così abbiamo capito che avevamo in mano qualcosa di importante: non era solo un amateur, come avevamo pensato. E da lì è partito tutto: abbiamo iniziato a chiedere il parere degli studiosi, tra cui Philippe Daverio, e tutti asserivano che valeva la pena di continuare le ricerche. Io ho addirittura lasciato il mio lavoro, e mi sono dedicata interamente a lui. Dopo un anno, abbiamo fondato l’associazione non-profit Archivio Luigi Pericle. Prima di tutto, abbiamo organizzato le opere e a breve inizieremo a mettere in ordine i suoi documenti.
D.M.A. – Nel catalogo della mostra c’è un saggio molto interessante di Marco Pasi, in cui lui scrive che Luigi Pericle appartiene alla composita famiglia di artisti e letterati del Novecento che hanno affidato la loro opera a quella che potremmo definire la “spinta postuma”. La spinta postuma si presenta quando un autore non desidera o non è in grado di far sì che la sua opera venga conosciuta e apprezzata durante la sua vita. Ciò proietta l’opera in un limbo totale di oscurità, nel quale essa può rimanere nascosta per decenni o potenzialmente anche per sempre. Tuttavia, la spinta postuma assume per noi il suo vero significato solo quando quest’opera possiede un’energia estetica tale da sfidare, e infine spezzare, la sua condizione di oblio. Questo può avvenire gradualmente e lentamente, oppure con una riscoperta improvvisa, a seconda delle condizioni materiali e del clima culturale in cui la spinta postuma si mette in moto e, infine, si arresta. Dopodiché Pasi approfondisce l’argomento, indaga le cause del fenomeno e confronta il caso di Pericle con quelli di Vincent Van Gogh, Hilma Af Klint, Emma Kunz e Georgiana Houghton. Lei che ne pensa? Condivide questa visione delle cose?
G.B.C. – Assolutamente sì, su questo concordiamo tutti. Il concetto della posthumousness, secondo Marco, riguarda Pericle perché lui aveva scelto di essere un eremita. Dopo le vendite stratosferiche in giro per il mondo, lui si è volontariamente allontanato dal sistema mondano dell’arte. Non aveva bisogno di altri soldi, poteva vivere dei quadri venduti e dei diritti per la marmotta Max, della quale in realtà si vergognava molto, come abbiamo scoperto leggendo alcune lettere trovate in casa. Era riservato, era disinteressato, e secondo lui il mondo degli anni Sessanta non era pronto per accettare e capire i suoi messaggi. E addirittura, questo ritiro dalle scene, che inizialmente riguardava gli addetti ai lavori, ad un certo punto ha coinvolto anche gli amici: li sentiva solo per lettera o al telefono. Frequentava solo più sua moglie. Quando lei è morta, ha smesso di parlare anche con loro. Sapeva che prima o poi qualcuno avrebbe riscoperto le sue opere, e che se ne sarebbe occupato. Lui era interessato alla creazione, per la diffusione ha delegato, e lì siamo entrati in gioco noi.
Davide Maria Azzarello
In copertina: "The march of time x, Matri Dei d.d.d." - Luigi Pericle