Giunchi e barattoli: alcune considerazioni su “L’origine del mondo” di Lucia Calamaro
Zanzotto è il mio autore preferito.
Zanzotto è morto dieci… quindici anni fa, ma io l’ho scoperto solo ieri.
Concita De Gregorio, Carolina Rosi e Mariangeles Torres danno vita a un raffinato ritratto di una condizione emotiva che tocca milioni di persone, in particolare in Occidente: la depressione, intesa non come una condanna irreversibile, ma come una fase che può essere attraversata e superata, aprendo la strada a una possibile guarigione. Questo spettacolo racconta non solo il dolore e l’alienazione che caratterizzano questa condizione, ma anche la speranza di poterne uscire, portando sul palco una riflessione autentica e necessaria sulla fragilità umana e sulla resilienza.
Questo è un frammento significativo del programma di sala, ma c’è un problema. Perché il sapido testo de L’origine del mondo di Lucia Calamaro, a guardarlo oggi e cioè a quindici anni dalla sua prima, si capisce subito che non riguarda (più) la depressione. O meglio sì, certo; clinicamente ci siamo, ma il significato sommerso è un altro. Il programma di sala si riserva sempre l’audacia di fungere da strumento atto a presentare un tema e agganciare lo spettatore (che agganciato già lo è, visto che ha comprato un biglietto ed è qui, nel teatro) e ciò avviene attraverso un report di contenuti magari dichiarati anche dalla o dalle menti dietro lo spettacolo, e senz’altro veri e verificabili. Ma in questo come in molti altri casi, ci si ferma ad un primo livello d’analisi: si sta sul bordo della ferita, senza guardarci dentro. L’origine del mondo non riguarda la depressione ma, nell’ordine: la genitorialità, l’inerzia, la speranza. La protagonista non esce di casa ma uscirà, come si può intuire dal colore della sua apatia intellettuale: non è una depressa indigente, confinata in una casa popolare, ma una scrittrice in un loft di vetro senza pareti. La protagonista è depressa ma il tema vero è il suo rapporto con la figlia, forse la più adulta di tutte; e con la madre, all’ombra della quale può trovare la solita banale soluzione riassumibile nell’antica formula del Sei depresso? Devi pensare positivo! Che è come suggerire a un diabetico di produrre meno glucosio. Si solleva un vento che diventa tacito uragano e i ruoli si scambiano a più riprese: la madre diventa figlia di sua figlia, la nonna ritorna madre, e la psicologa si dà il cambio con la figlia in maniera inquietante, senza saper proporre nulla di utile: nessuna idea per risollevare una paziente che segue da dodici anni. Che son tantini.
Dal 22 al 26 ottobre, con una replica ogni sera, questo testo iridescente, denso quanto volatile, ha riempito le poltrone del Teatro Gobetti di Torino, una delle sedi del Teatro Stabile. Lo spettacolo dura circa tre ore, intervalli compresi, ma per varie ragioni è un tempo che vola, semplicemente. Forse perché lo spettacolo mira a divertire, prima di impartire. In regia rimane Calamaro, e in scena troviamo Concita De Gregorio come protagonista, Carolina Rosi nel ruolo della madre e Mariangeles Torres nei ruoli della figlia e della psicologa: un trio formidabile sotto ogni punto di vista, con un’intesa palpabile. La voce autorevole e soffusa di De Gregorio, che grazie alla televisione conosciamo bene, a teatro funziona a meraviglia: ogni significante viene calcato col corpo e coi gesti, e così i significati risultano sempre squillanti, tridimensionali; come di una fata che spieghi (per l’appunto) l’origine del cosmo in un sussurro. Rimangono impressi così tanti dei suoi discorsi, come il pensiero su Zanzotto in apertura; o come quando si paragona alle nature morte di Morandi, sostenendo però con leggiadra veemenza di somigliare più a un barattolo tarchiato che a una bottiglia col suo collo elegante. Bisogna elogiare poi la qualità recitativa di Rosi, che appare solo nel secondo atto ma dominandolo del tutto: vuole tirare su il morale della figlia, ma è pure stanca di doverla spronare; è una conversazione a senso unico, sterile, come dimostrano i giunchi che le porta in dono e che Concita usa per infoltire un vaso di girasoli finti. Infine, Mariangeles Torres gestisce impeccabilmente non solo il personaggio della figlia, la più forte e la più pura di tutti (la speranza…), ma regala agli astanti una performance incredibile quando veste i panni della terapeuta. Non ci sono parole per descrivere con precisione cos’è che rende indimenticabile questo personaggio isterico come certe parodie di Anna Marchesini o Virginia Raffaele, ma per chi è stato in cura da uno psicologo vedere una cosa così ti fa capire che non solo non sei pazzo, ma che proprio la questione della psicoterapia presenta così tante lacune, malfunzionamenti e bias cognitivi dei curanti. La psicologa non ha le risposte (che è legittimo) e però non sa neanche porre delle domande, non sa come stimolare, come intervenire. Sa dire solo due cose: Come sta? E Per oggi abbiamo finito. In mezzo, una serie di pose plastiche, come certi personaggi di Jim Carrey.
Ci sarebbe ancora tanto da scrivere, da spiegare, ma questo spettacolo sarà in tournée per lungo tempo, quindi la cosa migliore è andare a vederlo.
Davide Maria Azzarello
Foto di copertina di Claudia Pajewski