Giorgio Volpe e Paolo Proietti scrivono “Il senso che ho di me”
“Ho sempre preferito avere oggetti variopinti. […] Mi spiace per il rosa delle mie amiche e l’azzurro dei miei amici.”
Guardandoci intorno, infatti, ci rendiamo conto che noi non siamo né rosa né azzurro. Siamo rosa e azzurro oltre a un’enorme tavolozza di cromie, di sogni, emozioni, idee…
A caratterizzare il libro di Giorgio Volpe e Paolo Proietti, “Il senso che ho di me” (Edizioni Il Ciliegio, 2020, pp. 23, euro 12), è l’immediata delicatezza con la quale si rivolge al lettore. Un lettore che, a qualsiasi età, può ritrovarsi a chiedersi se il ruolo che ricopre nelle relazioni socio-affettive è quello che egli stesso ha scelto o se, in maniera più o meno diretta, gli sia stato attribuito dalla società. Una società, la nostra, che ancora troppo spesso non tiene conto né delle inclinazioni del singolo né di assecondare il desiderio di essere realmente se stessi.
“Il senso che ho di me” parla, pertanto, di ciò che ci piace realmente fare e delle paure di essere considerati o sentirsi inadeguati davanti alla scelta di fare qualcosa che – stando al solo giudizio altrui – potrebbe non essere adatta a noi o, per meglio dire, al nostro genere di appartenenza. Giorgio Volpe, in pochi quanto densi pensieri, ci invita ad andare oltre, a esplorare anche la parte di mondo che, a causa degli stereotipi, non dovrebbero appartenerci. Paolo Proietti coi suoi pastelli è capace di ricreare un mondo dove tutto è possibile. Ogni azione, ogni piccolo gesto rappresentato, contribuisce alla costruzione del sé di ciascun individuo, liberandolo dal bisogno di essere ingabbiato e di ingabbiare il prossimo in pesanti etichette.
Le etichette, infatti, possono rivelarsi utili al supermercato ma vincolanti e dolorose nei rapporti interpersonali. Riuscire ad accogliere e riconoscere il senso che ciascuno ha di sé è l’anticamera per poter compiere nuove traiettorie di libertà dentro di sé, verso il prossimo, verso tutti i colori.