GABRIELE LAVIA AL PICCOLO TEATRO DI MILANO CON “I GIGANTI DELLA MONTAGNA”
Il palco del Teatro Grassi diventa la misteriosa Villa Scalogna, qui fatiscente platea di un antico teatro all’italiana. Teatro nel teatro. Il padrone di casa è Gabriele Lavia, che ripercorre le ultime memorie di un Pirandello che fa l’inventario della sua merce in magazzino. “I giganti della montagna” è infatti l’ultima opera – incompiuta – dell’autore siciliano. Una grande domanda aperta. Chissà se lui stesso sapeva come rispondersi. Chissà come questa risposta avrebbe cambiato il teatro succedutogli. Mistero.
È nel mistero che sguazza il mago Cotrone dal cappello alla turca. Un vecchio carismatico che vive rifugiato, lontano dalle città, insieme a una compagnia di attori con cui condivide imperterrito l’attività spirituale, quasi monacale, di dar voce e corpo ai sogni attraverso le pratiche teatrali. E quando alla villa arriva un’altra compagnia di attori, guidati dalla “contessa” (Federica di Martino nei panni di un’attrice italiana old style) Cotrone si prende il ruolo di saggio mentore degli ospiti in mezzo ai vari accadimenti misteriosi della villa, in cui anche i fantocci di pezza hanno intelligenza.
Gli ambienti sonori, le luci e le scene consentono allo spettatore un’immersione partecipata nel mistero di questa matrioska di poesia. Cotrone ci racconta che il teatro si fa con i “fantasmi”: i personaggi di tutte le epoche sono essenze che permeano gli spazi e fluiscono nei cervelli e nei cuori, a cui l’attore può attingere per evocarli. Ed è quello che il mago dice di fare quotidianamente, si appiglia al teatro come un naufrago a uno scoglio, in mezzo alla tempesta di un mondo troppo frenetico per contemplare la bellezza. E lui lo sa bene. Questo specifico Cotrone sa tutto, conosce la difficoltà di essere un responsabile della soglia tra mondo onirico e materiale, di prestare gli strumenti dell’attore a un testo intriso di magia, di abbandonare incredulità e cinismo e avere fede della poesia. Sa quanto è dura far teatro oggi. L’invito lamentoso, diluito nelle due ore di uno spettacolo dal finale aperto, che sentiamo uscire dalla polvere, è alla speranza: per poter raccontare dei miracoli bisogna crederci.
I. R.