“Fumo”: animalità e sopravvivenza
Lo spagnolo José Ovejero ha di recente pubblicato Fumo (Voland, pp. 135, euro 17, traduzione di Bruno Arpaia).
“Ci è davvero vicino soltanto ciò che possiamo nominare. Forse anche per questo evito parole che non mi servono più perché rimandano a un mondo per me scomparso. Sono parole fredde e metalliche, non hanno sapore né posso associarle a un odore.”
Una donna e un bambino vivono in una baracca in mezzo alla foresta, non hanno legami di sangue ma insieme formano una famiglia, un noi.
Andrea e Ciao, due nomi che non corrispondono alla realtà, vivono incapsulati in un piccolo mondo, convivendo in silenzio per la maggior parte del tempo.
Per rimanere vivi devono tornare a un’animalità altrimenti impensabile. Sviluppano forza negli arti, un’agilità che è quasi solo puro istinto, insensibilità al dolore.
Tra loro, solo sporadici momenti in cui torna la sensazione dimenticata di qualcuno che si prende cura di te, “l’attenzione di un altro, i movimenti cauti, l’affetto”.
“Siamo una piccola orda primitiva. La sopravvivenza si ottiene giorno per giorno. Non abbiamo imparato né a risparmiare né a prevedere. Siamo animali che al massimo seppelliscono una parte della loro preda per tempi peggiori.”
Con uno stile asciutto José Ovejero ci immerge in uno scenario tra l’apocalittico e il primordiale. Si potrebbe dire distopico se non così pericolosamente vicino alla realtà di alcuni di noi, alla possibile realtà di tutti noi in un futuro prossimo.
Regna sovrana la necessità di sopravvivere, solo a volte lasciandosi andare a ciò che non è ragionevole, seguendo un capriccio per sentirsi padroni della propria vita ancora una volta.
Sono le necessità primarie a dettare le azioni e, talvolta, il suo esatto opposto, l’impossibilità di agire: per la fame o perché spesso i protagonisti, soprattutto la donna, voce narrante, devono fare i conti con la difficoltà di vivere in un luogo senza memoria, senza narrazione.
Sospesi tra un presente scoraggiante e un passato scolorito. Manca l’idea di futuro che ci stimola, ci pungola in avanti e ci rende quel che siamo: umani.
“Per qualche motivo credo di non dover nascondere ciò che succede, forse perché penso che trovare la vera fine delle cose, per quanto sia una fine indesiderata, ci calmi sempre.”
In una schiettezza che spesso abbraccia la crudeltà, Andrea e Ciao vivono tutto alla luce del sole: non si nascondono il dolore, la sofferenza, la morte, nemmeno i rapporti sessuali che la donna consuma con un uomo che, di tanto in tanto, porta loro provviste e che non si sa da dove venga, né dove sparisca.
Sono tutti personaggi senza direzione, se non quella della non morte.
“Non c’è niente di più naturale della distruzione di ciò che non lo è. Tutto ciò che erigiamo noi umani è un’anomalia nella natura, che tende ad assorbirlo e divorarlo. Radici che fanno esplodere strade, alberi che s’infilano nelle finestre e sollevano il tetto, animali che rodono e perforano, batteri che fanno imputridire.”
C’è il racconto del rapporto costante tra uomo e natura, in un tentativo perenne di addomesticamento reciproco. Pagine queste di Ovejero che sembrano quasi un monito al male che ci facciamo: tra umani, tra umano e natura, in un duello dove pare non esserci spazio per entrambi.
E invece.
Laura Franchi