“Fucile”, un messaggio alle donne
“Fucile” (Gabriele Capelli Editore, pp. 166, Euro 18,00) è il primo romanzo di Odile Cornuz, poeta e scrittrice svizzera di lingua francese, che esplora la scrittura in varie forme – radiofonica, teatrale, narrativa, performativa, analitica.
“Stava lì nella sua storia, nella sua vita – ma non era in alcun modo più lì per quell’uomo. (…) Quand’è che finisce? Come si fa a sapere quando finisce? Tutto ciò che è stato lanciato nello spazio e che sembra un legame fra due esseri. Tesse fili. Si aggroviglia. Eccome se si aggroviglia! E bisognerebbe passare la vita a districarli? O perlomeno la parte che viene dopo? Quella che segue il momento in cui i gomitoli se ne stanno lì tutti incasinati? Riprendere il filo, sì.”
La storia di una coppia. Una donna separata e con una figlia piccola, si sposa con un nuovo compagno e prova a vivere una relazione duratura. Gli inizi spensierati, di passione, lui accetta la bambina, le giornate nella natura, piccole gite, scelte lavorative. Una coppia in mezzo a tante. Eppure già l’incipit del libro, che parte dalla fine della storia, ci fa capire che qualcosa non va. E in effetti, tra i pezzi di normalità emergono anche le esplosioni di rabbia dell’uomo, la sua gelosia, le minacce neppure troppo velate. L’amore piano piano scompare, lasciando posto all’amarezza prima, alla consapevolezza poi.
Siamo nella Svizzera francese dei primi anni ’90, ma potremmo essere ovunque e in qualunque tempo. Mancano riferimenti spazio-temporali precisi per rendere la storia di questa coppia quella di tutte le coppie. I personaggi non hanno nomi per lo stesso motivo, li conosciamo tramite i loro pensieri, i loro ricordi, le azioni. Si procede per episodi, e ogni episodio è caratterizzato da uno specifico oggetto, che ha un valore emblematico e ci racconta qualcosa di chi abbiamo davanti. Un vasetto che segna la nascita dell’unione tra l’uomo e la donna; due bracciali per il loro matrimonio; una pattumiera per il disprezzo che si crea tra l’uomo e la bambina, sempre più verso l’adolescenza; il fucile che, a differenza degli altri oggetti, riemerge con costanza lungo tutto il racconto, metafora di una violenza latente sempre sul punto di esplodere.
“Considerava la sua vita come un patchwork rattoppato. Si chiedeva cosa ne costituisse il principio, il cuore, lo scheletro. Si interrogava sulla primavera, su quello che ritorna, quello che cresce accanto al marcio.”
La Cornuz ci racconta una storia di consapevolezza. Madre e figlia, che sperimentano la crudeltà, prendono coscienza di non aver scelto davvero quell’uomo. Se ne sono fatte ammaliare, hanno ceduto a una scelta unilaterale. Per non cedere alla nostalgia, per lasciarsi il finito alle spalle, per fermarsi scegliendo un luogo, per piantare un albero e osservarlo crescere. In cerca di bellezza e solidità. Il racconto, questo della Cornuz, anche di scelte che si fanno per compiacere gli altri, per rassicurarli.
“Cos’aveva a che fare quello con l’amore? C’era davvero bisogno di rompere qualcosa? Dovevano urlarsi contro per delle cavolate, umiliarsi per i dettagli, dimenticare che gli insulti lasciano sempre delle tracce?”
Traccia dopo traccia, la Cornuz ci porta verso la liberazione, senza giudizio, solo con un monito perché i parassiti sono difficili da identificare, puntano sul fascino e sul fatto che siamo curiosi, ci piace esplorare, darci una possibilità.
“Rischi addirittura di non renderti conto che ti sei fatta acchiappare, che la prossima tappa punta all’assorbimento e che dopo non sarai altro che una carcassa vuota (…) Dunque: allenarti, allenarti e allenarti ancora – perché il destino di carcassa abbandonata non lo auguri a nessuno.”
Laura Franchi