FORME PRIME ASSOLUTE – “MAGNIFICAT” DI LUCILLA GIAGNONI AL TEATRO ASTRA
C’è un brivido sottile che corre nella voce quando qualcosa origina in senso vero e proprio, per la prima volta davanti a un pubblico. È con questo brivido, custodito nella voce di Lucilla Giagnoni, che al Teatro Astra di Torino ha fatto il suo debutto “Magnificat”, punto di arrivo della “Trilogia dell’Umanità”, testimonianza di vita dedicata allo studio e studio dedicato alla vita vera. Vera perché non confinata al proprio io, vera perché libera di pronunciarsi in forme sempre nuove, anzi, mai ultime. Attingendo con disinvoltura dal mito e dalla fiaba, autentici “scrigni di archetipi” nel loro raccontar-si e raccontar-ci, Lucilla narra e spiega un gioco che si dà ogni volta come se fosse la prima (in questo senso, un gioco classico), suffragata dalla collaborazione al testo di Maria Rosa Pantè, dall’assistente alla regia Daniela Falconi, nonché dalle musiche di Paolo Pizzimenti e dai video di Massimo Violato.
Nella O di legno del palcoscenico, troppo piccolo per stipare gli elmi di una sanguinosa battaglia*, prende vita la grande O di un gioco dell’oca: è questa creatura, buffa e tragica insieme (come il teatro), a guidare la sorte attraverso una spirale di caselle numerate dall’uno al sessantatré, in volo radente fra tanti sé individuali e plurali. Del resto, un intero organismo origina dall’irrefrenabile divisione e moltiplicazione di un’unica cellula di partenza, e ogni parte del corpo può essere porta d’accesso per la luce o per il buio, far squillare la primavera mettendosi a nudo o cadere nella non-parola pungendosi col fuso di un arcolaio. Il ritmo è serrato, scandito dal lancio dei dadi. Ad emergere, come dorsali di roccia nell’oceano, sono gli archetipi per eccellenza, “Femminile” e “Maschile”, che attraversano la storia umana e ne sono a loro volta attraversati in numerose, profondissime faglie. La più potente, sulla scena, è senz’altro quella tratta dall’Orestea: Clitennestra, “massacrata da mano matricida”, scuote a gran voce dal sonno le Erinni perché si lancino all’inseguimento e brucino l’assassino “al soffio infuocato del ventre”. Un dolore acuto al calor bianco, che graffia sia i vivi che i morti, e che soprattutto echeggia nei secoli insieme alle opacità di una giustizia che finisce per assolvere il delitto.
Là dove il torto è rovesciato in ragione, dove la vita è capovolta in malattia, c’è una sottile corda tesa che non smette di vibrare – ma per udirla bisogna pagare pegno. Infatti la posta in gioco è la consapevolezza, la visione nitida che “vincere è troppo poco”: continuare a giocare, casella per casella, a mettersi in pegno, scacciando finalmente la rassegnazione che inquina la vi(s)ta, tanto da vicino quanto da lontano.
Pier Paolo Chini
* citazione tratta dal Prologo di “Enrico V”, William Shakespeare.