Flavio Favelli dialoga col Settecento veneziano
La mostra a Ca’ Rezzonico racconta la bellezza di ieri e di oggi
Domani, domenica 15 settembre, si conclude la personale di Flavio Favelli a Venezia.
Siamo nel sestiere di Dorsoduro, a Ca’ Rezzonico, uno dei palazzi più affascinanti di tutta la laguna: costruito tra il 1667 e il 1758 attraverso i progetti di Baldassarre Longhena e Giorgio Massari, viene abitato dai Rezzonico fino al 1810, e dopo varie cessioni giunge al Comune di Venezia, che nel 1936 lo apre al pubblico come il museo del settecento veneziano, dicitura che ancora oggi si può leggere sulle brochure. Ed effettivamente le sale sono ricolme di quadri di Tiepolo, Longhi, Canal, Guardi; e gli affreschi del Guarana fioriscono tra i deliziosi fronzoli barocchi che caratterizzano gli interni. In questo periodo, in realtà, tutto il terzo piano sta affrontando un grande restauro, e quindi non è visitabile, ma se non ci siete mai stati val comunque la pena di passare.
Inaugurata il 9 maggio e curata da nientemeno che Gabriella Belli, direttrice della Fondazione Musei Civici di Venezia dal 2011, la mostra di Favelli aderisce al palazzo con una straordinaria plasticità camaleontica. Disseminate per il palazzo, le quindici opere inedite dell’artista fiorentino classe 1967 conversano amabilmente con l’anima e l’estetica di Ca’ Rezzonico: addirittura, talvolta, quando si entra in uno spazio e si dà uno sguardo d’insieme, l’opera di Favelli non salta subito all’occhio, nonostante la sua palpitante contemporaneità teoricamente distante dalle forme dei secoli passati. Quello di Favelli, infatti, è un intervento particolarmente interessante, perché non stride assolutamente con il carattere barocco di Ca’ Rezzonico; anzi l’artista ha scelto di diluire la sua operazione con la personalità del luogo senza rinunciare al suo stile proprio, alla sua essenza, ai suoi modi. L’evento è stato intitolato “Il bello inverso”, perché (come si legge nel comunicato stampa) racconta una bellezza pensata che è il mio immaginario, qualcosa che non è semplice da esporre in un luogo e in una città che è l’Arte per antonomasia. Favelli alza la posta in gioco, e asserisce che “è difficile esporre in luoghi così connotati: si cerca sempre il dialogo, si spera che l’artista di oggi, che per sua natura è considerato “leggero” rispetto all’arte del passato, renda un omaggio alla nostra arte…“, E pare che lui ci sia oggettivamente riuscito: nessuno stridore tra le sue opere inverse, per nulla leggere, e l’ambiente che le accoglie. Ma cosa si incontra a Ca’ Rezzonico? Eternity, una gigantesca stella rossa di neon appesa alla facciata che dà sul Canal Grande. Traliccio Tunisi, un assemblaggio monolitico di grate decorate a virgulti che ricreano uno strano panorama industriale prossimo all’abbandono. Silver Plated, una colonna di vassoi ossidati e opalescenti. Purple Riviera, grande pilastro fatto con i cartelli di latta che riproducono i gelati dei bar (I primi avevano nomi come Rivelazione, Duchessa e Ritornello, eleganti e composti forse a mascherare la sconcezza di quelle forme e dei loro gusti, scrive Favelli). Icone tridimensionali che elogiano una bellezza rovesciata nel tempio di una bellezza autentica. Un immaginario personale, quindi, che però tanti europei possono captare, capire e condividere all’insegna di una certa nostalgia per un tempo che però, forse, non abbiamo mai vissuto. Il contatto con le opere di Favelli consente al visitatore di riflettere sul senso stesso della bellezza, intesa come carattere che impregna le nostre esistenze tanto nel privato delle nostre case quanto nelle vie, nelle strade, nelle piazze delle nostre città. E, peraltro, l’artista sembra quasi suggerire l’esistenza di una certa influenzabilità biunivoca tra le bellezze domestiche, casalinghe, intime e quelle pubbliche, urbane, collettive. E infatti, per questo intervento, i riferimenti diretti alla storia dell’arte sono piuttosto evanescenti; prevale l’attenzione verso la storia del costume e verso tutto ciò che da essa scaturisce: la pubblicità, la comunicazione, le propagande chiassose, la cultura delle icone e le sue derive più deprecabili. E chiaramente questo messaggio rapisce gli occhi e la mente del visitatore, che vede sovrapporsi la bellezza che fu e quella – invertita, deviata, ribaltata, capovolta e dunque stravolta – che imperversa da qualche decennio e che oggi accettiamo perché la consideriamo normale. E infatti nel catalogo c’è un saggio dello stesso Favelli, in cui si legge che “le opere della mostra seguono quello che sto pensando e vedendo in questi anni […]. Diciamo che formalmente si sposano con gli ambienti, ma sul significato divorziano, marcano una distanza”.
Insomma, si tratta di un’operazione encomiabile. Purtroppo la stiamo pubblicizzando tardi, ma da poco è stato presentato il catalogo della mostra (ed. bruno, Dorsoduro 2729), che contiene delle ottime fotografie dell’allestimento, nonché le riproduzioni di varie altre opere che raccontano i contenuti e l’estetica di Favelli.
Davide Maria Azzarello