“Fatalità della rima”, Fabrizio Gifuni apre la stagione TPE 19.20
Torino, sabato 12 ottobre, ore 21. Il Teatro Astra in via Rosolino Pilo 6 è letteralmente invaso, oltre ai posti in gradinata sono state approntate ad hoc due platee ai lati del leggio e del microfono. C’è chi si scambia di posto col proprio vicino, chi chiacchiera delle interviste sbirciate poco prima nel foyer, chi indica i ferri che sporgono in alto, vestigia della antica galleria del cinema. Nel brusio generale, fa il suo ingresso Fabrizio Gifuni. Il centro del palcoscenico è luminoso, il silenzio diventa magnetico, di colpo – come palpebra di un occhio largo, esterrefatto* – cala il buio.
Da questo improvviso abisso, una voce inconfondibile inizia a splendere: “Il poeta. Eh. Il poeta è un minatore. Cioè è poeta colui che riesce a calarsi più a fondo in quelle che il grande Machado definiva le segrete gallerie dell’anima. E lì attingere quei nodi di luce che, sotto gli strati superficiali diversissimi tra individuo e individuo, sono comuni a tutti. Anche se pochi ne hanno coscienza. (…) Quei nodi di luce che tutti i membri della tribù possiedono, ma che non tutti sanno di possedere o riescono ad individuare.”
Così Fabrizio Gifuni, che dello spettacolo “Fatalità della rima. Omaggio a Giorgio Caproni” firma anche l’ideazione e la drammaturgia, apre la stagione TPE 19.20. Definirlo reading, per quanto legittimo, non rende adeguata giustizia a ciò che realmente accade. Gifuni interpreta Caproni mettendo tutto se stesso, da capo a piedi, come se la voce tracciasse i confini mentre il viso, le mani, il corpo intero fossero piegati nella tensione di segnare e scavare tutte quelle parti in cui l’inchiostro delle parole non arriva.
Alternando le poesie – dalle più complesse, magmatiche quali “Il passaggio di Enea” e “Litania”, alle quelle dal respiro più breve ma sempre affilatissimo come “All’ombra di Freud” e “La tagliola” – a riflessioni del poeta livornese tratte da una conferenza a Roma nel 1982, il ritratto che viene man mano a comporsi è quello di una figura tra le più profonde del Novecento italiano. Giorgio Caproni ha indagato, con la delicata meticolosità di un artigiano della parola scritta e soprattutto pronunciata, le soglie interiori dell’animo umano. Tra legame e promessa, tra separazione e ricongiungimento. Senza mai perdere di vista la struttura, anzi l’architettura del testo, come è evidente dal ritmo, irrefrenabile, della poesia che dà il titolo a questo spettacolo.
“Fatalità della rima. Omaggio a Giorgio Caproni” sarà di nuovo in scena al Teatro Vascello di Roma il 17 febbraio 2020.
* da “Il lampo” di Giovanni Pascoli
Pier Paolo Chini