Europa racconta la sua vera storia: “Mater dei” di Massimo Sgorbani in scena a Torino
E la sera, poi. La sera, a casa, che per fortuna tutto era finito […] La sera a casa mi sono lavata tutta, lavata tutta mi sono. Come per mandare via la paura. E poi mi sono guardata allo specchio per vedere se sulla faccia avevo qualcosa di strano, se mi era venuta una faccia di animale. [citazione dal testo di Sgorbani]
Ve lo ricordate il mito di Europa? Di solito le maestre più audaci lo raccontano quando affrontano il capitolo del sussidiario che tratta i cretesi, e quindi magari si può partire da una lezione di recupero per tutti. Troviamo tracce di Europa già nell’Iliade – Omero la inserisce tra le Oceanine – ma la versione più nota è quella della Teogonia di Esiodo, composta attorno al 7° secolo a.C. Secondo lui Europa era la principessa di Tiro, figlia del re Agenore e di Telefassa, e quindi nipote diretta di Poseidone nonché sorella di Cadmo, Cilice e Fenice, monarchi (rispettivamente) di Tebe, della Cilicia e della Fenicia. Esiodo racconta che un dì l’umorale ed impulsivo Zeus s’invaghì della principessa (che peraltro era la sua pronipote), e scese quindi tra i mortali per rapirla. Per l’occasione, sulla falsa riga degli altri divini flirt, decise di mutare forma: si presentò infatti a Europa sotto le spoglie di un maestoso toro bianco. Lei, credendolo innocuo, si avvicinò e gli salì in groppa. Zeus allora la portò a nuoto dalle sponde di Tiro (poco a sud di Beirut) fino all’isola di Creta, dove giacque con lei. Dall’unione nacquero il celebre Minosse e i meno noti Radamanto e Sarpedonte, tutti e tre allevati da Asterio, il re di Creta che sposò Europa dopo che Zeus salpò per le successive e avventurose conquiste.
Massimo Sgorbani, drammaturgo milanese ormai rodato, è partito da questa enigmatica leggenda mediterranea per giungere alla creazione di un testo che ne esplora l’essenza più irragionevole. La trama viene sbalzata su un segmento spazio-temporale indeterminato e indeterminabile. Europa, qui, è una donna matura. Di figli non ne ha avuti tre, ma ben tredici. Eppure, sul palco si relaziona solo con l’ultimo, il tredicesimo, che le chiede a gesti di raccontare quello stesso mito dal quale è emerso anche lui. E allora Europa, moderna e stregonesca oratrice, si getta a capofitto nel passato e riversa sul pubblico la miscela rivoltante degli eventi che si sono susseguiti in un passato che rimarrà per sempre vivido nelle sue retine. Europa, con un monologo intermittente (e talvolta ridondante), rivela tutti i fatti nella loro crudezza: l’improvvisa e destabilizzante comparsa di un dio contraddittorio che tramortisce le anime e i corpi, la pazzia (teorica e concreta insieme) di chi non riesce a razionalizzare la crudeltà del mondo, la violenza subita da un iridescente dio luciferino, l’amplesso furioso e penoso che riduce i corpi a fessure, le assurde reazioni delle altre madri, il parto doloroso e impossibile, il secondo brano di follia materna che non accetta – comprensibilmente – che anche solo uno di quei tredici sia un buono, un efebo delicato, un redento dalle colpe genealogiche. E tra una sequenza narrativa e l’altra emerge l’altra ansiogena problematica: il rapporto irrisolto (e irrisolvibile) tra una madre feroce, sconsiderata, farneticante e un figlio inaspettatamente docile, riflessivo, un pensatore quieto ma imploso per la durezza del suo milieu. Il delirio postumo della madre blandisce il cervello del figlio, e il risultato è sconcertante: una performance blasfema che si offre come una metafora del furore fanatico del mondo. E molto probabilmente, se quel che è stato scritto sinora è corretto, non esiste neanche un’interpretazione univoca del testo di Sgorbani, che forse punta più a uno spietato sconvolgimento che non alla proposta didascalica di una lezioncina. Certo, molti passaggi sono davvero ripugnanti: soprattutto il lessico, ma anche i gesti, talvolta, producono sequenze sgradevoli, imbarazzanti, indelicate, quasi da neo-commedia dell’arte. Ma d’altronde, ab assuetis non fit passio. E Sgorbani sembra voler esacerbare quest’idea, poiché cala i suoi contenuti nella descrizione polemica e volutamente disarmonica di un mondo che preesiste al nostro, un mondo che pubblicamente rifiutiamo ma che forse continua a produrre strascichi comportamentali nelle nostre menti. Il risultato, quindi, è magnificamente sconcertante.
Lo spettacolo s’intitola “Mater Dei”, madre di Dio, rudimentale cortocircuito immaginifico che riproduce la circolarità dell’universo, ed è stato prodotto dalla Piccola Compagnia della Magnolia, fondata nel 2004 e residente (da quest’anno) presso il Teatro Espace di via Mantova. La regia è di Giorgia Cerruti, fondatrice della compagnia e abile interprete di quell’Europa che non dev’essere facile impersonare. “Mater Dei” è stato inserito nel cartellone del 24° Festival delle Colline Torinesi, capitanato anche quest’anno da Sergio Ariotti, che come sempre si rivela un attento conoscitore della complessa situazione teatrale contemporanea. Lo spettacolo è andato in scena al Cubo Teatro di Vanchiglia, avanguardistica istituzione torinese che val la pena di frequentare.
Davide Maria Azzarello