Estetica e simbolismi al Teatro Menotti di Milano
La lingua di cane è un pesce simile alla sogliola che vive appiattito sui fondali, immobile, muto. Pressoché invisibile. Sparito. Come accade spesso a certi umani, che nel mare cercano un futuro. Esseri umani che, visti dall’altra sponda, spesso non si trasformano che in “altri” – “tanti per un nome solo, perché altrimenti fa troppo male” , di cui si può, tutt’al più, giocare a vestire i panni, finché il gioco si fa tragedia. Altri dei quali non si conoscono le parole, e si finisce col rivolgere domande senza risposta, accuse senza coscienza, in un dialogo impossibile che si avvita su se stesso, onda e risacca di parole fatte suono, suono che diventa gesto, aria di mare del dialetto siciliano, lingua delle radici eppure insieme lingua dei pochi, che approfondisce il solco tra noi e loro.
Lingua di cane, in scena al Teatro Menotti di Milano, è uno spettacolo corale, di fortissimo impatto estetico. Franz Cantalupo, Sara D’Angelo, Elisa Di Dio, Noa Di Venti, Mauro Lamantia Salvatore Galati sono spesso un corpo solo, in equilibrio tra prosa e teatro danza, danno corpo a coreografie, di Mariagrazia Finocchiaro, fortemente evocative e simboliche. Una drammaturgia di corpi (e di segni di cui gli abiti che fanno tappeto alla scena sono solo i più evidenti) che si intesse con quella di parola (di Sabrina Petyx) che sfrutta le potenzialità della lingua e del dialetto per costruire un’architettura originale su un tema necessario ma che chiede di essere affrontato in modo non scontato.
La scelta del parallelo acqueo riesce nell’intento, sostenuta dalle luci di Marcello D’Agostino e soprattutto dalle poetiche musiche di Francesca e Mario Incudine (anche ideatore del progetto insieme a Cantalupo). Gli strumenti di scena sono semplici (almeno fino al scenografico finale), ma è proprio in questo, e nell’uso intelligente che ne viene fatto, a fare di Lingua di Cane una messa in scena sorprendente prima di tutto sul piano estetico. L’accuratezza estetica però sostiene anche una riflessione in cui la simbolizzazione tra uomo e pesce offre spunti di riflessione a tratti luminosi e spietati – “Chi nasce pesce, non lo sa che muore pescato?” e spinge alla riflessione evitando accuratamente il didattismo, su un tema che necessita di ritrovare le corde dell’empatia per essere raccontato efficacemente. Così sfuma il confine tra noi e loro, – “la lingua di cane è come me, un pesce a cui hanno tirato una fregatura” – e la speranza che pure sa di essere frustrata non ha altra scelta che provare ad aggrapparsi. Per non sparire. “Perché i cristiani nel mare non muoiono, spariscono”. E chi sparisce perde anche il proprio statuto di esistenza, “come se non ci fosse mai stato”.
Chiara Palumbo