Erano stelle sotto la maschera, intervista a Raffaella Giancipoli
Attrice, drammaturga e regista, Raffaella Giancipoli ha portato in scena “L’estranea di casa” al Teatro Bellarte nella stagione 18/19 di Fertili Terreni Teatro e, più recentemente, nell’Ex Cimitero di San Pietro in Vincoli, per la seconda edizione del Festival delle Migrazioni. Abbiamo avuto il piacere di intervistare l’artista pugliese, che si trova in un momento di trasformazione del proprio percorso.
P.P.C.: Luminiţia, la protagonista del tuo spettacolo, è arrivata sui palcoscenici di Torino dopo aver vinto il bando l’Italia dei Visionari 2018. Ma da dove è partita?
R.G.: In fondo, è come se “L’estranea di casa” fosse nato a Torino. Il mio interesse verso questo tema è nato grazie a un saggio di Francesco Vietti, docente universitario torinese, intitolato “Il paese delle badanti”. Non ricordo perché comprai questo libro, ma mi colpì molto. Soprattutto perché faceva emergere un paradosso: la decisione di delegare la cura dei propri figli al marito, ai vicini di casa e al resto della famiglia, per venire in Italia a prendersi cura di qualcun altro. Questa cosa dentro di me ha fatto cortocircuito. Nel frattempo ho lavorato per due anni su un altro tema, cioè la storia delle donne che hanno preso parte al brigantaggio meridionale. E nel 2011 abbiamo fondato Kuziba. La compagnia è nata con l’idea di fare un teatro itinerante, che raggiungesse quei luoghi dove il teatro non c’è, ad esempio nelle città sulla Murgia. Siamo stati i primi a fare quello che adesso è diventato famoso come “teatro partecipato”.
P.P.C.: Quindi quello sulle badanti è stato, in qualche modo, un progetto parallelo?
R.G.: Con Kuziba, lavorando insieme ad altre compagnie pugliesi, è stato del tutto naturale spostarsi sul teatro ragazzi. È dall’età di 23 anni che faccio laboratori con i bambini, per me il loro sguardo è uno degli strumenti per comprendere il mondo. Così sono nati gli spettacoli “Vassilissa e la Babaracca” (leggi QUI la recensione di Annarita Amoruso) e “Nel castello di Barbablu”. Invece i monologhi, “Rita” e “L’estranea di casa” sono parte di un percorso che è iniziato prima della fondazione di Kuziba e che la compagnia ha assorbito al proprio interno. Con tutti i pro e i contro.
P.P.C.: Lo spettacolo era concepito come monologo fin dall’inizio?
R.G.: Sì. Volevo raccontare la solitudine di questa donna, e il coro di voci che volevo si creasse poteva essere portato in scena da una attrice sola. Potevo non essere io, ma doveva essere un monologo, ne ero sicura. Erano cinque anni che mettevo da parte i semini di questo progetto, come un uccellino. Avevo sempre un quaderno a portata di mano, andavo nei parchi a sentir parlare la gente, osservavo il modo in cui le badanti parlavano e come gli altri si rivolgevano a loro. C’è da dire che il personaggio della serva, di colei che di mestiere “si prende cura”, ha iniziato a scavare una via – o una vita – dentro di me in un periodo ben preciso, e in un luogo: Gubbio, nella grande casa di Barbara Bonriposi, pedagoga, allieva di Vacis. Una vera pioniera nella ricerca sul punto di vista umano dell’attore, e sulla presenza. Io ho fatto un primo percorso di dieci giorni, poi sono ritornata. Alla fine si è creato un gruppo, eravamo quattro donne e due uomini: ci svegliavamo alle 4 della mattina, leggevamo tutti insieme attorno al camino, poi uscivamo a camminare nella natura. Dopo essere tornati facevamo colazione, e poi andavamo in sala per fare lavoro fisico, circa sei-sette ore. Poi tornavamo a studiare. Ogni giorno così, per sei mesi.
P.P.C.: Quindi un periodo di lavoro intenso sia sul corpo che sulla mente…
R.G.: Esatto. Facendo soprattutto in modo da togliere tutti gli elementi e i comportamenti che distraggono, che interrompono dei flussi. In questo senso Barbara Bonriposi ci portava a lavorare sulla presenza, sull’attenzione e sulla concentrazione. Ecco perché, anni dopo, “L’estranea di casa” ha preso la forma che ha ora. Grazie all’ospitalità di Teatroermitage (Molfetta) ho trascorso due settimane di solitudine e concentrazione sul testo, dopodiché è arrivata la squadra di Kuziba per le prove e le videoanimazioni di Beatrice Mazzone.
Abbiamo debuttato nel settembre 2017, in un posto davvero speciale: la Basilica di Santa Maria Maggiore di Siponto. Il video veniva proiettato sulla struttura in rete metallica*, l’animazione percorreva letteralmente tutto l’edifico. Un debutto bellissimo. Da lì abbiamo fatto quindici repliche, previste dal bando Siae, più altre in spazi nuovi e molto diversi.
Quello che intendo fare quest’anno è mettere a punto una versione ridotta del monologo, concentrata sul racconto, senza il telo e senza i video. Per poterlo fare in luoghi intimi, come teatro in casa, o piccoli locali, a stretto contatto col pubblico.
P.P.C.: Che reazioni ottieni dagli spettatori? Per esempio, a San Pietro in Vincoli dopo gli applausi hai detto “siete un pubblico molto libero”.
R.G.: Cerco sempre di arrivare alla tragedia dopo essere passata attraverso la leggerezza e il sorriso. Non solo perché credo che, metaforicamente, il pugnale affondi meglio quando la carne si è addolcita, ma anche perché non mi sembra possibile né una vita né un teatro in cui si può solo ridere o solo piangere. Quello che spesso succede è che lo spettatore, una volta letto il tema dello spettacolo, si prepara già ad un volto grigio. C’è una sorta di pudore, un tenere a freno le emozioni perché si crede che “non sta bene”. Invece secondo me andare a teatro può, anzi deve essere liberatorio, in ogni senso!
Raffaella – che ringraziamo di cuore per il tempo che ci ha dedicato e per tutto ciò che ci ha raccontato – ha recentemente preso una via differente dalla compagnia Kuziba. Per usare le sue stesse parole, si tratta di “un tempo nuovo. Un tempo da artista singola, libera, presente, per approfondire maggiormente sia la drammaturgia sia la regia”.
Pier Paolo Chini
*Opera di Edoardo Tresoldi
Foto: Tea Primiterra