Edipo Re-Make, un’indagine noir sulla tragicità della conoscenza
Nella vicenda dell’Edipo Re di Sofocle tutto è già stato scritto all’inizio. L’oracolo di Delfi ha dichiarato che un giorno Edipo dovrà ricongiungersi con sua madre e versare il sangue di suo padre. La profezia vede quello che accadrà inesorabilmente. Chi non vede, però, è Edipo, che più si sforza di sottrarsi al suo destino, più ne rimane imprigionato. Più cerca di svincolarsi dalle corde che lo tengono stretto, e più ne rafforza i nodi.
È su queste premesse che la macchina scenica e drammaturgica allestita dalla Bottega del Pane, e presentata al Teatro Lo Spazio, dal 10 al 13 marzo, riconsidera il capolavoro del tragediografo greco, mettendo in moto l’indagine sul colpevole. In un’atmosfera d’interno, di chiara suggestione noir, che sfrutta il contrasto di luci e ombre, lo spettatore si ritrova davanti a un imperante letto girevole che accoglie tra le rosse lenzuola del peccato Giocasta (Cinzia Maccagnano) ed Edipo (Dario Garofalo). Riusciamo a scorgere i loro volti grazie agli specchi disposti sopra la testiera del letto, elemento ricorrente nel dramma, nonché metafora del doppio. Edipo è una sorta di detective privato che deve risolvere un caso cruciale: una grave pestilenza, causata dall’ira di Apollo, colpisce il popolo di Tebe. Il “male” potrà essere sconfitto solo quando il colpevole dell’assassinio del Re Laio sarà scoperto e punito. Giocasta è, invece, una famme fatale, conturbante e manipolatrice, che usa i suoi poteri incantatori per trattenere il protagonista in questa morbosa corsa verso la conoscenza. Sulla passerella a destra avanzano due donne (Luna Marongiu, Cristina Putignano) che con eleganti giacche, cappelli e movenze fortemente espressioniste, introducono l’opera facendo rotolare a vista delle sfere metalliche, molto probabilmente simboli dei cinque atti che saranno rappresentati. Ciò che più sorprende è il lavoro attento e di scavo eseguito dalla compagnia sulla dimensione umana del linguaggio. Gli attori rubano a Sofocle le parole per sollevarle sul palco e farle camminare in dialoghi costruiti registicamente, come veri e propri interrogatori, sempre più incalzanti e puntuali nel sottolineare dinamiche e punti di vista dei vari personaggi. Come, ad esempio, accade con le parole dell’indovino Tiresia (Raffaele Gangale), eco dei versi del profeta Isaia (“Hanno occhi, ma non sanno vedere”) che tormentano e costringono Edipo alla ricerca furiosa della verità. Lo sgarro più grave però che l’eroe tragico commette in questa inchiesta è di escludersi a priori come la potenziale causa che va a ricercare negli altri. In questo senso Edipo è l’innocente colpevole, tra predestinazione e libertà, tra volontà divina e responsabilità individuale. Si è macchiato dei peggiori crimini, parricidio e incesto, e allo stesso tempo non sa che l’uomo ucciso al crocevia è suo padre, il re Laio. Non sa che la donna che ha posseduto e dalla quale ha avuto dei figli è sua madre. I suoi atti sfuggono alla sua coscienza.
E noi, come lui, ci troviamo nella stessa condizione, non sappiamo da dove veniamo. La solitudine e la fragilità umana sono altre costanti di quest’opera, hanno a che fare con l’essere caduti in un corpo, come proiettili di carne precipitati sulla terra. Ma la tragedia di Edipo è anche una tragedia della luce: “Luce, ora ti vedo per l’ultima volta!” grida, sul finale, quando ormai tutto è stato rivelato e la verità luminosa squarcia le tenebre dell’ignoranza. E questa esperienza della verità è molto forte, come quella che Icaro fa avvicinandosi troppo al sole. Edipo privandosi degli occhi e dell’inganno che da essi ne è derivato, intraprende la dolorosa via della conoscenza di sé, diventando la parabola di un uomo che, provando l’infelicità arriva alla catarsi. Al fondo di questa via crucis laica, la tragedia di Sofocle risveglia la responsabilità dello sguardo e ci congeda con un monito vivo sull’importanza del sapere, che anche Dante inciderà nella sua Divina Commedia: “Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza”. In questo consiste la dignità umana.
Diana Morea