È SCRITTO NEL SANGUE – “28 BATTITI” ALL’ELFO PUCCINI DI MILANO
28 battiti al minuto. Un cuore lento in un corpo fatto per marciare. Un cuore lento che rende quel corpo il più veloce di tutti, fino al gradino più alto del podio, fino a stringere tra le mani l’oro olimpico. Comincia dalla felicità incredula della vittoria lo spettacolo scritto e diretto da Roberto Scarpetti nel 2016, ed arrivato in scena al Teatro dell’Elfo dall’11 al 16 dicembre. Il monologo trae ispirazione dalla vicenda biografica e sportiva dell’ex-campione italiano Alex Schwazer, dalla cima più alta del mondo fino al crollo dopo le analisi che nel sangue scovano il doping.
La scrittura evita attentamente il luogo comune e non cade in nessun facile giudizio morale. In “28 battiti” il personaggio reale ed il fatto di cronaca diventano spunto mai esplicito per la costruzione di un racconto in prima persona in cui l’atleta – interpretato con intensità da Giuseppe Sartori – si auto analizza e si confessa, e così facendo tratteggia una personalità complessa, che si dibatte in una condizione esistenziale dolente. Il marciatore di Sartori si muove e sempre più nervosamente vaga tra immagini d’infanzia, ricordi passati e sprazzi di presente. La scena è spoglia, eccetto che per una scrivania da ambulatorio ed una serie di provette da analisi piene di rosso sanguigno, elementi minimi che dall’inizio instaurano una tensione palpabile, l’attesa di qualcosa che dovrà inevitabilmente accadere. L’atleta vive lo sport come passione e condanna. La marcia è vita, in quei momenti di solitario allenamento su per le montagne, all’alba, dove pare di ricongiungersi alla natura; ma la disciplina ferrea – sacrificio richiesto ed imprescindibile – è morte, negazione di ogni spazio vitale che non sia finalizzato a lavorare perché quel fisico lo accompagni senza crollare fino al successo dorato. Il corpo si configura come ossessione. Ossessione, nel disagio di essere toccato, quasi che quell’insieme di membra possa vivere solo se confinato in sé stesso. Ossessione nell’alzare sempre più in alto l’asticella della preparazione atletica; spingere, sempre più alto, tirare, andare avanti, un passo oltre, ogni giorno: ma la tensione prima o poi porta alla rottura. Infortunio, ad una manciata di settimane dai giochi Olimpici dove il titolo avrebbe dovuto essere difeso e riconfermato. Ma come si fa a rinunciare? Non è questo quello che vuole. Il marciatore si chiede se davvero questa “non vita” vale la pena di essere vissuta. Che differenza c’è tra allenarsi per mesi, ed ottenere gli stessi risultati nel tempo di un’iniezione, con qualche fiala di epo? Nel momento di crisi, la via più breve sembra costituire l’unica soluzione per recuperare in fretta e tornare in corsa. La tensione cresce progressivamente, e scorre sempre più veloce nel corpo – ormai nudo e senza difese – e nell’interpretazione di Sartori (impeccabile la parabola emotiva punteggiata di tic, scatti nervosi, esplosioni di energia). Scorre come i rivoli di sangue lungo quel fascio assetato di muscoli che adesso respira grazie al doping. In quel sangue c’è tutto. C’era scritto il suo destino, ora vi sono incise le tracce della colpa, unica via di salvezza da quell’incubo, una volta scoperte. Dopo aver toccato il fondo più nero, è ancora possibile una rinascita. Per tornare a marciare sui sentieri alpini, marciare solo per sé, prendere un respiro nuovo, e ricominciare da un corpo senza più costrizioni. Ripartire dalla propria natura, dai 28 battiti al minuto, e nient’altro.
Sul quel corpo – come nei video di Luca Brinchi e Daniele Spanò che fanno da contrappunto al monologo a più riprese – saranno di nuovo incisi solo i sogni e le risate di un bambino, il cielo, le montagne, i prati, cenni significativi di libertà.
Mariangela Berardi