“Dreamwalk” è il nuovo singolo dei Bluedaze – L’intervista
Dal 9 ottobre sarà disponibile “Dreamwalk”, il nuovo singolo della band di Varese Bluedaze, che anticipa l’imminente uscita del disco d’esordio, che avrà titolo “Skysurfers”. I Bluedaze, formatisi nel 2017, comprendono: Nicolò Cagnan (batteria, percussioni, cori), Elisa Begni (voce, cori), Manuel Cazzola (chitarre), Francesco Sergenese (basso, cori). Abbiamo fatto qualche domanda alla band per andare più a fondo nella loro musica.
“Dreamwalk” è il vostro nuovo singolo, i versi della prima strofa dicono “Love me when it’s dark, when I’m lonely and dry, love me when it’s late and I’m too tired for a smile” ma nel ritornello troviamo“leave me baby, leave me after midnight, leave me baby, leave me in the moonlight, leave me baby, leave the real me wearing my doubts”: un alternarsi tra amore e solitudine?
Assolutamente sì! Questo brano parla proprio di amare ed essere amati, nonostante le proprie solitudini e le proprie paure. Non importa che si tratti di un partner, di un amico, di un parente. Il senso dell’amore sta tutto in quel nonostante. Sta nel mettersi a nudo, nel mostrarsi l’un l’altro senza sovrastrutture, né protezioni. E nel decidere di restare, nonostante tutto. Crediamo che sia una consapevolezza cruciale, questa, soprattutto in un momento difficile come quello che stiamo vivendo. Siamo tutti arrabbiati per qualcosa, spaventati, messi alla prova e questo ci porta spesso a essere anche delle persone che non vorremmo essere. Amare ed essere amati, nonostante tutto questo, è quasi un atto rivoluzionario. Qualcosa di grandioso che non dovremmo mai dare per scontato.
Quando avete composto questo brano e, più in generale, come nascono i vostri brani?
Questo brano è stato composto circa tre anni fa. Elisa ne aveva portata una bozza in sala prove. Si trattava di un brano più dilatato, chitarra acustica e voce, al quale mancava ancora un ritornello. Lo abbiamo lavorato un po’ tutti insieme, per poi arrivare alla versione attuale con Martino Cuman (il nostro produttore). Un iter, questo, comune a molte delle nostre canzoni, oltretutto. Altrimenti succede che è Francesco a portare l’idea iniziale, oppure qualche volta è capitato di scrivere qualcosa tutti insieme, direttamente in sala prove.
Sulla copertina di “Dreamwalk” si vede una macchina sola in un parcheggio vuoto di notte, come avete scelto questa immagine?
Il ritornello di Dreamwalk dice “incontriamoci dopo mezzanotte, alla luce della luna, saremo soltanto io e te, con addosso solo i nostri dubbi”. Al di là di quel significato un po’ metafisico di cui abbiamo parlato prima, questi versi possono benissimo descrivere un incontro tra amanti furtivi, che si vedono di notte, in macchina, di nascosto da tutti, in un parcheggio deserto…
Girerete un video di “Dreamwalk”?
Sì! Lo abbiamo già girato ed è attualmente in fase di montaggio. Uscirà nelle prossime settimane e sarà un po’ un condensato di chi siamo e di cosa amiamo fare.
Sul vostro canale YouTube ho visto il video e la versione acustica del vostro primo singolo “Hodad”: nella didascalia viene spiegato che hodad è la parola usata per indicare un surfista che si comporta e veste come tale, ma che in realtà non lo pratica; un concetto estendibile a diversi frangenti, apparire in un modo, ma essere ben altro. Il testo dice “our names are written on the wall, that’s the place of things that will never be, that’s the only place for us, indeed”: il muro è il confine tra l’essere e l’apparire? Voi e voi che tipo di hodad siete, se lo siete?
“Hodad” è una canzone sulle insicurezze e sulle cose lasciate in sospeso. Il muro di cui si parla nel verso che citate, è quello contro cui è destinato a schiantarsi chiunque non prenda il controllo della sua vita: è il muro delle “cose che non saranno mai” e quindi probabilmente sì, anche il muro di confine tra l’essere e l’apparire. Siamo anche noi Hodad, certamente! In primis non sappiamo surfare (ma nemmeno per sbaglio, eh) e poi – come tutti – siamo pieni di insicurezze. Spesso ci sentiamo inadeguati, insofferenti, non abbastanza e per questo finiamo per raccontarci diversamente da come siamo…la questione è: ne vale davvero la pena? Questa cosa non ci fa sentire terribilmente soli, alla fine dei conti?
Il vostro primo album, “Skysurfers” è di prossima uscita, potete anticipare qualcosa sui contenuti? Avrà tutti brani in inglese?
Sì, “Skysurfers” uscirà a metà novembre e sarà composto da 8 brani in inglese. Ci sono diverse anime e atmosfere che coesistono all’interno del disco. C’è sicuramente una componente solare e groovy, e un’altra più noir e malinconica. Pensiamo che questo mix ci rappresenti moltissimo, perché siamo soliti dedicarci ai massimi sistemi e alle cazzate con lo stesso identico impegno.
Farete dei concerti dopo l’uscita di “Skysurfers”?
Sì! Se tutto va per il verso giusto, riusciremo a fare qualche concerto dopo l’uscita di “Skysurfers”! Per ora abbiamo in programma una live preview del disco il 14 novembre al Circolo Gagarin di Busto Arsizio, poi ci sarà una serata all’Osteria ai Preti di Verona, una a Mare Culturale Urbano a Milano e qualcos’altro ancora in fase di definizione. Ovviamente non vediamo veramente l’ora di suonare dal vivo. La sola idea che “si possa fare”, nonostante le difficoltà, ci rende già felici.
Quali sono i vostri artisti di riferimento?
Ne abbiamo tantissimi e cambiano mensilmente, oltretutto. Gli innamoramenti stabili sono sicuramente Lana Del Rey, Big Thief, Tame Impala, Khruangbin. Al momento poi siamo in fissa con lo psych soul/ funk degli anni ’70 e con gruppi contemporanei come Jungle, Parcels, Vulfpeck, Sault, Tempels, ecc. Domani chissà!
Da dove viene il nome Bluedaze e come vi siete incontrati?
Bluedaze è il nome di un fiore. Letteralmente significa stordimento/sballo malinconico e ci piaceva moltissimo perché riusciva a tenere insieme la leggerezza e la malinconia, ovvero le due anime di cui parlavamo poco fa. Quanto a noi, invece, ci conosciamo da un sacco di tempo, ma non abbiamo mai suonato insieme fino al 2017 quando – senza alcuna pretesa – abbiamo deciso di trovarci in sala prove e vedere cosa veniva fuori. Pensavamo potesse essere divertente ed effettivamente non ci sbagliavamo!
Roberta Usardi
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