“Donne è Bello” – Intervista a Liliana Barchiesi
Eravamo belle senza palestre ossessive
Eravamo belle senza liftings miliardari
Eravamo belle senza diete demenziali
Eravamo belle senza vestiti firmati
Eravamo belle senza “perchè”
perchè alla fine eravamo protese
tutte sopra le righe di un mondo orribile
per tentare di costruire un mondo più bello
MARISA CHIODO
Inizia così la nostra conversazione con Liliana Barchiesi, fotogiornalista, nata a Milano nel 1945. Il suo è uno sguardo fotografico che ha come nucleo il mondo femminile, in senso ampio e che vede la donna protagonista del suo tempo: in ambito lavorativo, nello spazio domestico, la donna che manifesta e al centro delle più grandi conquiste legislative che porteranno all’introduzione della legge sul divorzio e sulla legalizzazione dell’aborto, la nascita dei consultori e gli spazi di aggregazione e alla fine, non per importanza, le innovazioni apportate da Psichiatria Democratica e dalla Legge Basaglia. Dal 2000 la sua attività giornalistica si svolge prevalentemente in collaborazione con Associazioni di donne, attraverso fotografia e documentario, in un percorso tra attualità e storia, tra diversità e parallelismi lontani da ogni forma di stereotipo e senza strizzare l’occhio ai generi. Nel 2021 pubblica “Donne è Bello” con la casa editrice Postcart. Il libro rappresenta una piccola storia della fotografia e del costume in Italia, completata dai riferimenti legislativi e arricchita dai testi della stessa Barchiesi, di Lea Melandri e di Giovanna Calvenzi, tradotti anche in inglese. L’autrice utilizza il linguaggio fotogiornalistico per indagare temi che non definirei “prettamente” femminili. Tutto ciò che riguarda l’essere donna investe una quantità di variazioni: la casa, il lavoro, la maternità, la militanza. Sono temi politici e giuridici che hanno a che vedere con le relazioni, con l’aspetto più intimistico e che, quindi, riguardano anche e sempre una controparte, sia essa uomo o donna.
Mi chiedo e ti chiedo perché un libro sulle donne dovrebbe essere letto solo dalle donne e non anche dagli uomini?
Il mio obiettivo è di rivolgermi a chiunque senza distinzione di generi, “generi” che declino volutamente al plurale. Non è più possibile ignorare le problematiche e le istanze sollevate dal Movimento LGBT e dalle famiglie arcobaleno; penso che solo insieme, nell’unione di coloro che non si riconoscono nel sistema binario di genere, negli stereotipi e nei ruoli obbligati di maschi e femmine sui quali si ancora il sistema patriarcale, si possano raggiungere degli obiettivi. Vero che in una prima fase del femminismo degli anni ‘70 era importante per noi definirci come entità autonome. Questa è la ragione per cui non sempre ci era gradito essere affiancate dai nostri compagni quale eterno supporto di presunte fragilità. Voglio anche aggiungere che il femminismo inteso come ribellione ad un sistema discriminante è sempre esistito. Nel corso della storia sono state molte le donne che hanno preso coscienza e che si sono ribellate pagando spesso prezzi altissimi; donne d’ingegno e colte ma anche popolane, vedi l’eccidio delle cosiddette streghe. Devo dire che nel mio recente intervento sul libro “Donne è Bello” a cura di Cine Sud Fotomagazine, si è registrata una forte presenza maschile; ciò dimostra che nonostante la complessità delle tematiche affrontate, le stesse sono recepite e hanno reso possibile un’alta partecipazione e un coinvolgimento appunto di tutti.
La Casa e i riti, rappresenta un progetto fotografico sul ruolo casalingo delle donne e per il quale tu hai scelto un elettrodomestico. A proposito degli elettrodomestici, diverse femministe e intellettuali dell’epoca polemizzarono molto e legittimamente contro le pubblicità che inneggiavano a una “falsa rivoluzione” delle donne che venivano ritratte come belle signore che avrebbero potuto dedicarsi a farsi belle per il marito, a cucinare e altro. Il messaggio che passava non era quello dell’acquisizione di consapevolezza di tempo libero da dedicare allo studio, al lavoro non casalingo, ad un percorso di reale emancipazione. Mi piacerebbe sapere cosa pensi di questo aspetto della comunicazione del femminile e quanto abbia influito nella trasformazione dei gesti e della cultura materiale e, ulteriormente, nel creare un sistema di ideali e valori della domesticità.
La pubblicità segue e propone quella che è la rappresentazione della norma, ci serve quindi immagini per le più legate a stereotipi e ruoli. Talvolta occhieggia a pruderie sessiste, e questo vale per ieri come per l’oggi. Ci si aggiorna talvolta uniformandosi al peggio come l’utilizzo di bambini e bambine travestiti da adulti, ma anche con innovazioni come per esempio le donne guerriere: peccato che si trovino a combattere contro l’invadenza del calcare, felici quando riescono a debellarlo. Vi sono però anche innovazioni più serie, come la rappresentazione di maschi che si prendono cura dei bambini, quindi qualcosa si muove. La donna angelo del focolare inevitabilmente persiste seppure ammodernata, né potrebbe essere altrimenti in un sistema patriarcale fondato sulla famiglia tradizionale di cui la donna è vestale. Occorrono servizi sociali e strutture per la cura dei bambini e delle persone fragili che rendano libera la scelta della maternità, che ci diano la possibilità di accedere al lavoro, di esprimere capacità e potenzialità. Questo spreco tra l’altro potenzierebbe e di molto la nostra economia come studi sul tema dimostrano. Il progetto fotografico “La Casa e i riti” nasce da un confronto maturato con il Collettivo Donne Fotoreporter di Milano, attivo dal 1976 al 1980. L’obiettivo era quello di realizzare un lavoro sulle casalinghe, ognuna scelse un tema, oggetti o gesti del quotidiano. Io scelsi gli elettrodomestici di uso comune, mi consentivano un approccio più semplice e mi davano la possibilità di creare una sorta di complicità. Fotografare donne nel proprio spazio domestico è cosa che ho sempre perseguito nel corso del mio lavoro. Mi interessa la correlazione fra l’ambiente e le persone che lo abitano, che nel tempo si è definita e apprezzata come ricerca antropologica.
Nel libro c’è un’immagine di un autore sconosciuto e che hai riprodotto. Nella mostra “Donne – Immagini 1974/1979” esposta a Palazzo Vitelli di Pisa, questa immagine viene collocata al centro del percorso espositivo, “quale simbolo del non essere di una donna, se non quale strumento utile e necessario a fini altri e per altri”, così scrivi. Trovo questo simbolo molto forte e importante, e mi fa pensare a Lolita di Nabokov. Lolita abbandonata al suo Humbert Humbert non ha scelta e non ha diritto di replica, le viene sottratta la possibilità di vivere secondo la sua natura e il diritto ad esprimersi. E il parallelismo coinvolge anche Leggere Lolita a Teheran di Azar Nafisi, in cui si parla appunto di donne incapaci di vedere sé stesse, rese inesistenti, invisibili nel corpo ma visibili solo negli occhi di un uomo che le guarda. Cosa pensi al riguardo, trovi affinità, punti di contatto tra queste opere letterarie e la situazione femminile di ieri e oggi?
Le affinità con le opere letterarie che citi ci stanno tutte. Le donne si guardano attraverso gli occhi degli uomini e questo anche in presenza delle nuove consapevolezze che il femminismo ha portato. Malgrado la pratica femminista dell’analisi e le consapevolezze raggiunte la cultura patriarcale rimane profondamente radicata in uomini e donne indistintamente; cultura millenaria e globale con la connivenza delle diverse religioni che, per la maggior parte, tendono a mischiare spiritualità e potere che vuole la donna asservita, legata alla riproduzione e alla cura. La cultura femminista seppure abbia prodotto molti testi fondamentali utili al pensiero in senso generale, rimane sconosciuta ai più; le nostre manifestazioni e rivendicazioni sono spesso ignorate dai media, proprio qui nel nostro paese (rammento un articolo sul Washington Post che durante il periodo del governo Berlusconi si chiedeva dov’era finito il Movimento femminista italiano). Ma le nemiche maggiori sono, talvolta, le donne stesse ancorate ai ruoli e ai margini di potere che possono consentirci la maternità e la fisicità, usati come mezzi di ricatto. Come detto anche in presenza di conoscenza e consapevolezza scattano meccanismi che fanno cadere il senso critico acquisito riproducendo istintivamente comportamenti ancestrali. L’immagine che tu citi e che riproduce una lapide è una sorta di cartello, simbolo evidente del non essere delle donne; di questa donna non si conosce il nome, è definita come madre di dieci figli tra i quali il capitano dei partigiani… conta solo per il ruolo glorioso di aver dato vita a 10 figli, non merita né un nome né una immagine che infatti è sostituita dalla fotografia del figlio partigiano. Questi i motivi del bisogno della ricerca di una identità storicamente negataci. È una esigenza espressa da tante artiste, fotografe e letterate, non necessariamente con una consapevolezza femminista, ma sicuramente con la precisa percezione di una discriminazione storica che ci ha escluse dal sociale. Uno dei tanti esempi possibili: la Mostra “L’altro sguardo fotografe italiane 1965-2015” apertasi alla Triennale di Milano nell’ott. 2016 a cura di Raffaella Perna sulla Collezione di Donata Pizzi. Uno dei fili conduttori che si ripetevano nella maggior parte delle circa cinquanta fotografe presenti è appunto la ricerca di una affermazione identitaria.
Il 2 Luglio del 2020 a Roma, si tiene una protesta davanti al Ministero della Salute per chiedere la contraccezione gratuita e l’aborto garantito per tutte le donne. Durante la prima ondata di contagi, diverse associazioni avevano denunciato che l’accesso al servizio di interruzione volontaria di gravidanza era diventato molto più difficile, tra reparti chiusi, limitati o trasferiti e scarsità di informazioni. Con la ripresa e l’aumento dei casi in autunno sono tornati anche i problemi nell’accesso all’aborto. Una situazione che riguarda un po’ tutta Italia – in alcuni casi anche prima dell’arrivo della pandemia – e che si somma all’alto tasso di obiettori di coscienza tra i ginecologi, anestetisti, secondo l’ultima relazione del Ministero della Salute sull’attuazione della 194, con ciò rappresentando un ostacolo notevole e la compressione dell’esercizio di un diritto. Il Consiglio Europeo, in questi ultimi mesi, ha richiamato l’Italia in materia di aborto, rilevando l’inazione del governo e la messa in campo di ostracismi che hanno impedito un’assistenza sanitaria adeguata. Rattrista pensare che dopo tante lotte si fatichi ad affermare l’essere donna e soprattutto che sia difficile esercitare un diritto. È come assistere allo sgretolamento di un gigante legislativo come quello della Legge 194/78, granitico nell’affermare certi aspetti, un po’ meno per quanto riguarda altri. Cosa pensi di questa situazione attuale?
Il video documentario Legge 194 “Cosa vogliono le donne” registra un percorso tra testimonianze e immagini che si snoda dagli anni ’70 ad oggi. L’ho realizzato insieme ad Alessandra Ghimenti per un convegno tenutosi a Milano nel 2013 sulle nuove e diverse problematiche rispetto alla attuazione della legge https://www.youtube.com/watch?v=jCjdWAqKjIA La 194 è diventata, nel tempo, di sempre più difficile applicazione con una recrudescenza e tentativi di moratoria nel periodo cosiddetto berlusconiano. Il movimento delle donne non ha mai smesso di porre attenzione ai temi sensibili, nel caso della 194 cercando anche di contrastare il Movimento per la vita che non solo si insedia in quelli che una volta erano i consultori e oggi comuni ambulatori, ma inscena rappresentazioni con tanto di bambolotti e terrificanti fotografie di feti direttamente presso gli ospedali. In alcuni casi l’obiezione di coscienza raggiunge anche il 90%. È evidente che in un momento di crisi sanitaria dovuto al Covid la situazione non poteva che esasperarsi. Rispetto alla Ru 486, anche detta pillola del giorno dopo, in Italia – e non negli altri paesi europei – era prevista obbligatorietà di degenza, cosa che oggi dovrebbe essere superata. In ogni caso continua l’ostruzionismo non solo su questa legge ma anche su molte altre come la parità sul lavoro. Le leggi non bastano, va fatto un lavoro culturale perché leggi dello Stato e la nostra Costituzione diventino davvero patrimonio comune. Organizzazioni come Maschile plurale intervengono con attività di informazione e sensibilizzazione rispetto ai diversi temi di cui abbiamo parlato ed è insieme che ce la faremo. Se guardiamo al dopoguerra: abbiamo ottenuto il voto, possiamo accedere a carriere e ruoli da sempre vietati alle donne abbiamo, insomma, molto ottenuto e molto si può e si deve fare. Vorrei concludere, ricordando figure di donne che hanno dato un bellissimo esempio di libero pensiero e contribuito al miglioramento del mondo attuale:
Rita Levi Montalcini, neurobiologa, diceva di sé “Lavoravo tantissimo, viaggiavo, facevo esperimenti, le mie ricerche progredivano. Ai convegni a volte si creavano malintesi buffi. Come quella volta che una signora a un convegno mi avvicinò: “È qui con suo marito?” chiese convinta che fossi la moglie di uno dei relatori-scienziati. “Sono io mio marito” risposi divertita.
Vera Rubin, astronoma “Dovetti fare molte battaglie. Come quella per poter usare il magnifico, telescopio di Monte Palomar di cui era vietato l’uso alle donne. Un astronomo, mio collega, mi accolse gentilmente nell’enorme cupola del grande telescopio. “Posso usare il WC?” chiesi quasi subito. “Purtroppo ne abbiamo solo uno e lo usano gli uomini.” Era imbarazzatissimo. “Non fa nulla,” risposi allegramente. Presi carta e forbici, ritagliai la figura di una donna e l’incollai sulla porta del bagno accanto a quella di un omino. Il divieto era infranto.
Liliana Barchiesi, fotogiornalista. “Negli anni 70 io c’ero”. Nella mostra “L’altro sguardo. Fotografe Italiane 1965-2015”, tenutasi alla Triennale di Milano, la sezione “Cosa ne pensi del femminismo?” metteva in mostra le fotografe che negli anni ’70 si espressero visivamente sulle linee del pensiero femminista. Nelle note biografiche che mi riguardavano venivo definita “fotografa militante interna al Movimento”. Confesso che il primo impatto di fronte a questo modo di descrivermi mi era sembrato riduttivo e vagamente penalizzante. Ho però riflettuto e ho concluso che la definizione era pertinente. Di fatto in quegli anni avevo usato la fotografia quale strumento per dare il mio contributo al Movimento delle donne…Quegli anni erano stati sì di terrorismo e Brigate Rosse, ma anche di aspirazioni tese a un radicale rinnovamento. Molto fece il Movimento delle donne.
Giusi Bonomo