“Dominicana”: farsi strada in terra straniera
Angie Cruz, nata a New York da famiglia dominicana, firma il romanzo dal sapore autobiografico “Dominicana” (Solferino, pp. 382, euro 18). Angie Cruz, autrice, fondatrice e direttrice di una rivista di arte e letteratura, e insegnate universitaria, si divide tra Pittsburgh, New York e Torino. Un miscuglio interessante che in qualche modo si riversa anche in queste pagine.
Ana
“La prima volta che Juan Ruiz si dichiara io sono una ragazzina di undici anni, pelle e ossa e senza tette”.
Lo inizia così, Ana, il suo lungo racconto in prima persona. Quando Juan Ruiz chiede la mano di Ana “tra le lettere di Mamá, le birre a sbafo e le visite annuali”, lei ha quindici anni e lui trentadue. Ana vuole restare coi fratelli, i cugini, nei posti che sa. Vuole veder esplodere l’amore adolescenziale con Gabriel, e invece, solo il tempo di un bacio a labbra strette. Parte Ana, con un matrimonio fatto solo di carta e nessuna festa, e un documento falso che le regala diciannove anni. Parte per dovere, per aiutare la famiglia, e troppo presto impara che “abbiamo tutti bisogno di una maschera di qualche tipo”, e a lei ne serve una per mandare avanti le cose con Juan, quando è disattento, rude, violento, quando la tradisce.
Ana guarda la vita dalla finestra di casa più che viverla. Guarda le stagioni e le mode che cambiano, guarda la storia, e vede quasi in diretta la morte di Malcom X, vede un mondo che non le appartiene perché Juan la frena. Ma Juan è costretto a tornare in Repubblica Dominicana, per affari e soldi, la sua ossessione. E Ana resta sola. Quando il mondo di Juan inizia a crollare, Ana comincia finalmente a costruire il suo. Con le lezioni di inglese, con la pancia che cresce, coi pasti ai vicini di casa soli, le passeggiate in quartiere e con César, suo cognato, che le fa scoprire la meraviglia e la dolcezza di piacersi davvero, per scelta. Ana cresce e cambia e, al ritorno di Juan, non sarà più la stessa. Ana si scopre.
Gli anni ’60 che cambiano il mondo
Angie Cruz ci porta tra New York e la Repubblica Dominicana degli anni ’60. Sullo sfondo, la storia che accade: Malcom X, le proteste dei neri, la guerra in Vietnam, la voglia di pace. E ci racconta personaggi estremamente credibili. La Cruz trova ispirazione nella storia della madre e ne vengono fuori persone reali, di cui ci riesce a raccontare gli stati d’animo, le differenze e le somiglianze tra le une e le altre: nei gusti, nei modi, nell’aspetto. Spicca su tutti Ana, certamente, di cui assaporiamo la nostalgia per casa, ma anche il forte desiderio di farcela, e di avere il pieno controllo della propria vita. La Cruz ci lascia intendere tra le righe che forse Ana e Juan non sono poi così diversi: entrambi in fin dei conti hanno fatto scelte imposte da altri, entrambi soffocano un sentimento reale, entrambi sono ambiziosi, guidati dalla voglia di riscatto. Juan e César dicono spesso ad Ana che presto i dominicani saranno più dei bianchi a New York. Ana, quando la madre arriva in città, le ripete la stessa cosa.
Una storia attuale
La Cruz ci racconta una storia che scorre via veloce e leggera, ma sa porci domande molto attuali: che vuol dire essere la minoranza in un paese altro? Che vuol dire, davvero, scegliere il dovere?
Che vuol dire ricostruire il proprio mondo da zero, con in tasca pochi soldi e poche parole di una lingua sconosciuta? Per esempio.
“Mi fa male la gola, a furia di trattenere le lacrime, le parole”. Vuol dire questo, per esempio.
E altre volte, vuol dire la piccola gioia dell’onda che ti bagna i piedi in spiaggia, per esempio.
Laura Franchi