“Diario del Gran Paradiso”: salire in alto per cercare la luce
Il “Diario del Gran paradiso” (El Doctor Sax, Beat & Books, pp. 339 pagine, euro 16) è la storia, anzi il diario per l’appunto, dei tre anni che Anacleto Verrecchia, germanista e filosofo, ha trascorso come guardiano nel parco nazionale del Gran Paradiso, dal 1950 al 1953.
“Tutti pensano alle scalate sociali; io, nel mio irrigidimento contro tutto quello che è convenzionale, ho fatto la scalata dei monti (…) Quando, per amore di libertà o per spirito di avventura, non si marcia al passo con gli altri e si esce dagli stupidi schemi della vita borghese, si corre sempre il rischio di passare per stravaganti. E va bene: io preferisco muovermi all’aria aperta dietro gli stambecchi piuttosto che ammuffire in un ufficio. Meglio le montagne vere che le montagne di scartoffie. Ma che bellezza quassù!”
Si apre così il diario di Verrecchia e al termine delle oltre 300 pagine, ci si rende conto che in fondo la sua filosofia di vita e già tutta in queste poche righe.
Verrecchia ama la natura e preferisce le “solitudini stellari” che offre alla frenesia di chi vive “in basso”, a valle, in città, e che a metà tra disgustato e rammaricato guarda dall’alto delle sue montagne, chiedendosi spesso verso cosa l’uomo corra di continuo e con così tanto affanno, “giostra di pazzi” la chiama. Quello di Verrecchia per la natura non è solo amore. C’è una costante esaltazione di flora e fauna, un’ammirazione verso i modi di agire, di sopravvivere che spinge Verrecchia a equiparare la natura e l’uomo, e in alcuni casi a considerare la prima decisamente superiore. Eppure, per spiegare certe azioni umane si scomodano l’etica e la morale, ma per la natura no, seppure lotti per sopravvivere proprio come l’uomo. Molteplici sono i paragoni e gli accostamenti tra uomo e natura, come molteplici sono i temi che Verrecchia affronta: suicidio, sesso e amore, coscienza anche politica, nazionalismo, soldi, letteratura, Dio e fede. Non mancano aneddoti sui personaggi che animano le montagne e i racconti dei suoi molteplici incontri amorosi, sempre garbati; così come descrizioni delle abitudini degli animali, osservati a lungo e da vicino. Molte delle sue riflessioni sono state certamente influenzate dall’esperienza della Battaglia di Cassino, tragico evento che gli portò via anche la madre. Molte altre sono forse un po’ anacronistiche, ma è un diario da contestualizzare negli anni ’50. Nei racconti, e in quelli che a volte sono solo frammenti di pensiero e veloci riflessioni, Verrecchia lascia emergere il fascino che Schopenhauer e le sue idee hanno esercitato su di lui da un lato, e una grande ironia e leggerezza dall’altro:
“Fortissimo tuono nel cielo: si è forse sparato il Padreterno? Motivi per farlo, se è stato veramente lui a creare questo mondo, ne avrebbe parecchi”.
Il Diario di Verrecchia è un libro solo in apparenza facile, non sarebbe nemmeno da leggere tutto d’un colpo, ma poco alla volta, così da poter assimilare gli spunti alle riflessioni di cui è ricco.
E Verrecchia, che il 15 giugno del 1953 ridiscende in città e sa che non sarà facile rimettersi a camminare al passo con gli altri, forse con un po’ di amarezza e a promemoria ci lascia con un ultimo pensiero: “Chi cerca la luce deve salire in alto, come fanno le pianete e come fece Zarathustra.”
Laura Franchi