“Diari dal carcere”. L’Iran prigione a cielo aperto
“Diari dal carcere” (Gaspari Editore, pp. 148, euro 16) è il racconto di Sepideh Gholian della quotidianità nel centro di detenzione prima, e poi nella sezione femminile del carcere di Sepidar, in Iran. Sepideh è una giornalista freelance iraniana, il cui lavoro si incentra soprattutto sui diritti umani e sulle condizioni dei lavoratori. Nell’autunno del 2018 ha documentato la mobilitazione del sindacato dei lavoratori della raffineria di zucchero Haft Tappeh, uno dei più grandi complessi agro-industriali del paese. Proprio a causa della sua attività giornalistica, dopo essere stata detenuta in varie prigioni iraniane, ancora oggi sta scontando la sua pena detentiva nel carcere di Bushehr.
“Diari dal carcere” è stato pubblicato in italiano per iniziativa dell’associazione “Librerie in Comune” e del festival vicino/lontano, con il patrocinio di Amnesty International. Il ricavato della vendita del libro è destinato a coprire le spese legali di Sepideh Gholian, mentre una quota sarà devoluta ad Amnesty International. Sepideh è riuscita a far pubblicare queste pagine approfittando di un momento di libertà provvisoria nei primi mesi del 2020. Per la loro pubblicazione è sotto processo per “diffusione di propaganda e falsità”.
“Finora ho imparato a conoscere una grande varietà di suoni che fanno le persone sotto tortura. Tortura con l’acqua bollente, tortura coi cavi, tortura col bastone. Ma a lui cos’hanno fatto per cavargli quei versi d’animale? Pensavo sempre: cosa intendono quando ti dicono “ti farò ululare dal dolore”? Ora hanno torturato Ali il pescatore fino al punto che emette suoni da pecora e da bue…”
Sepideh, per lo più bendata, racconta spazi e corpi attraverso i rumori: dei passi, dei gemiti, dei cigolii. Scava con una sensibilità nuova che è la risposta a chi la vuole piegare.
Ogni storia raccontata è la storia di una vita che si cerca di spezzare: con la violenza, l’umiliazione, la privazione, l’estorsione di finte confessioni, pretesti religiosi.
E se il racconto della tortura fa orrore, è tuttavia quello delle “piccole” libertà a lasciare storditi. Non si può fumare, in cambio di una sigaretta da parte di una guardia, si viene stuprati e poi denunciati con aggiunta di ulteriori capi di imputazione.
Non ci si può truccare.
Non ci si può tenere per mano.
Non si può danzare.
Non si può indossare una vestaglia né abiti variopinti.
“Non”, la via dell’annientamento, e ci riesce il carcere, questo tipo di carcere.
Sepideh però fa emergere anche contesti famigliari in cui non si ha poi più tanta libertà che in carcere. Lei stessa viene ripetutamente picchiata, anche con violenza, dalla famiglia perché ha i capelli blu, per il lavoro che fa, perché si discosta troppo dall’unico modello femminile convenzionalmente e culturalmente riconosciuto.
Forse per questo Sepideh scrive “Ormai, non fa più differenza che una persona sia in prigione oppure no, il solo fatto di vivere in Iran ci rende prigionieri. (…) quell’immensa prigione a cielo aperto che è l’Iran.”
Ai racconti si aggiungono numerosi disegni che rendono la sofferenza ancora più vivida. Sono pagine piene di dolore, fisico, emotivo. Pagine ripetitive di uno stesso obiettivo con metodi sadici e disumani. Pagine necessarie perché è importante imprimere nella mente di tutti, specie di chi vive in ben altro contesto, che questi fatti avvengono, esistono, che non si possono ignorare né dimenticare. Oblio significa non dover rispondere delle proprie azioni, significa ripetere la storia, quella sbagliata.
Laura Franchi