“Destinazione non umana”, eppure così vicina alla vita
Se c’è qualcosa che possa essere definito Teatro è un’esperienza simile a quella vissuta con lo spettacolo “Destinazione non Umana” della drammaturga e regista Valentina Esposito e della compagnia FACT, Fort Apache Cinema Teatro, ospitato dal Teatro India dal 22 al 27 febbraio. In scena tutta la potenza di una favola amara, costruita sulle solitudini e sulle evocazioni di scomparse, figlie di questo nostro tempo fuori dai cardini. Soprattutto, un lungimirante lavoro corale sullo sforzo disperato di vivere contro e nonostante la certezza della morte. Il progetto ha coinvolto gli interpreti di FACT, attori ed ex detenuti provenienti dai bracci di Alta Sicurezza delle carceri, guidati in percorsi di formazione pedagogica e artistica.
Sedici esistenze (Fabio Albanese, Alessandro Bernardini, Matteo Cateni, Chiara Cavalieri, Christian Cavorso, Viola Centi, Massimiliano De Rossi, Massimo Di Stefano, Michele Fantilli, Emma Grossi, Gabriella Indolfi, Giulio Maroncelli, Piero Piccinin, Giancarlo Porcacchia, Fabio Rizzuto, Edoardo Timmi), diverse tra loro, eppure tenute strette da un solo scopo, fare teatro insieme, giovani e anziani, malati o azzoppati dalle sofferenze, storie uniche di chi ha scontato una pena o chi è uscito dall’accademia di Arte drammatica. E non importa se si tratta di professionisti o non professionisti, carcerati o ex carcerati, la bellezza di questo ensemble risiede nell’aver trasmesso l’urgenza di dire qualcosa di profondo, largo, forte e sensibile, qualcosa che si avvicina al midollo della vita, al suo dolore e al suo risorgimento.
Lo spettacolo può essere letto come parabola dell’agonia di sette cavalli da corsa, contrassegnati da numeri e colori, tutti fratelli, ammassati in una fetida stalla, il box di un allevamento intensivo, drogati e seviziati dalla spietata mano umana che li considera ormai inadatti allo scopo, costretti a stare scomodi in putridi abbeveratoi a forma di bara, condannati ad essere carne da macello di baconiana memoria. Una locuzione incredibile per raccontare in modo rinnovato un tema caro alla tragedia greca, quello della predestinazione. Sin dalla nascita, infatti, sul passaporto di questi animali pende il gancio di un destino crudele: “… Ci sono i cavalli a consumo umano, quelli destinati sin da subito alla macellazione, alla produzione di alimenti, allo squarto, allo sgozzo, al dissanguamento, alla carne, corpi docili, addomesticati, addestrati a procedere lentamente verso la morte. Poi ci sono quelli a destinazione non umana, quelli che nascono per i soldi, le scommesse, il doping, la droga, le medaglie, il plauso del pubblico, la scena. Sempre a rischio di cadere e di essere abbattuti”.
Eccola qui la tragicità della natura umana, l’idea di vivere sapendo di dover morire. La volontà di infilare la storia animalesca nelle maglie della favola, luogo principe dell’infanzia, ci riporta subito al gioco del teatro che ha donato la giusta energia alle relazioni tra anziani e giovani sul palco, complici nel prendersi in giro attraverso una parlata romana rude e forsennata, e nel condividere lo stesso calvario. La regista Valentina usa piani temporali, anticipazioni, e lo fa con grande maestria. Ha sapienza drammaturgica e sa costruire una storia che si sviluppa nell’animo dello spettatore, a maggior ragione quando, come in questo caso, parliamo di un’operazione faticosissima gestita con una devozione palpitante.
La scenografia non è invasiva, lascia al pubblico la possibilità di immaginare un proprio paesaggio, facendo perno su pochi, scarni, elementi, come il fondale a strisce, le luci fredde e il soffitto che è una ragnatela di carrucole e catene. Ai decisi suoni metallici della ferraglia si alternano i dialetti e le nenie delle donne, che come mitologiche parche vaticinano le tristi sorti degli uomini, restituendo dignità all’inferno dantesco in cui giacciono, territorio desolato di polvere, imbracature e brandelli di abiti lerci. Una questione più profonda e trasversale è quella del rischio, c’è nell’esperienza di vita di queste persone che va oltre il teatro, una precarietà di fondo capace di togliere il fiato e far rimanere incollati alla visione, come quando guardiamo un acrobata sospeso sul filo senza rete. È il senso di prossimità alla caduta e alla morte di questi cavalli che ci dà i brividi, in un climax che raggiunge sul finale una tensione lirica, quando queste bestie invocano strazianti preghiere d’amore.
Sul proscenio incede una bambina, candida apparizione che ripristina un legame con il cielo. Ed è lei che, più di ogni altro, “gioca ad immaginarsi la vita per illudersi di dimenticare la morte” mentre tiene nelle mani Rubino e Diamante, i suoi cavalli giocattolo che, anche se rotti e imperfetti, non vuole abbandonare. Il frangiato sipario dei nostri occhi si spalanca su questa poetica prospettiva d’amore, in cui le tragedie dell’esistenza e le angosce si spengono pian piano, come a riconoscere e ad accettare che il dolore è inevitabilmente consustanziale all’esistenza umana, anche quando non c’è una volontà dietro nel produrlo.
Diana Morea