Delitto/Castigo: restare umani dopo la follia al Teatro della Pergola di Firenze
Sipario aperto su una scenografia dai toni cupi, quasi funerei, dominata da corde che scendono dal soffitto e dalle quali penzolano cappotti e giacche, stalattiti che a tratti si animano come in un ballo di fantasmi.
Sergio Rubini assieme a Carla Cavalluzzi hanno provato a condensare nel breve spazio temporale quale può essere una pièce teatrale il mastodontico romanzo di Dostoevskji riuscendo a compiere un miracolo di sintesi restituendone al pubblico una rilettura moderna ma pur sempre fedele all’originale, un delitto e castigo sia pure con una propria autonomia estetica ma nello stesso tempo capace di interpretare il pensiero del grande scrittore russo di cui Virginia Wolf, con profondo acume, ne rileva la peculiarità: “Per lui non fa differenza che siate un nobile o una persona semplice, un barbone o una gran dama. Chiunque voi siate, siete un contenitore di un liquido perplesso, questa materia nebulosa, in fermento, pregiata: l’anima”.
Delitto/Castigo di e con Sergio Rubini e Luigi Lo Cascio, in scena al Teatro della Pergola di Firenze fino al 29 marzo, non è solo l’analisi di un delitto, quello compiuto da un giovane poverissimo squattrinato Raskol’nikov, individuo sostanzialmente inetto ma pur avvinto dal demone dell’ideale, circoscritto nell’ottica del superuomo che si erge al di sopra del bene e del male, teso alla impari sfida non tanto alla propria coscienza o alle umani leggi ma alla propria psiche che dunque uccide non già per fame ma per sfida. In tal modo il delitto diventa lo specchio del proprio limite, l’orizzonte da superare per l’affermazione del proprio io, conflitto disumano che crea una febbre, una scissione, uno sdoppiamento, sino all’ineluttabile sconfortante consapevolezza di non aver ucciso la vecchia usuraia ma se stesso.
L’angoscia che pervade Raskol’nikof, la sua ansia, la violenza della sua disperazione alla fine diventano l’ansia e la disperazione di ognuno. Forse per questo la natura bitonale dello spettacolo e quel sipario aperto che accoglie lo spettatore entrando in sala diventano un invito per ciascuno, un ingresso per l’anima,un accompagnare verso il precipizio, nell’inferno dello sconforto, in una terra di fantasmi, di voci, di impervi percorsi che portano se non verso la salvezza, almeno verso una presa di coscienza di umane colpe e inevitabili sconfitte.
Lo spettacolo di Rubini è formato di tessere, capitoli, elementi di un puzzle che ricostruiscono la storia ora con le funzioni di coro come nel teatro greco, ora con i toni e le forme di un dramma radiofonico dove alla voce narrante si accompagnano i suoni del rumorista ben visibile sulla scena che con elementi diversi efficaci e suggestivi creati da G.U.P. Alcaro ne semplifica i passi, l’aprirsi delle porte, lo schianto dell’ascia, ora con l’interpretazione in prima persona da eccellenti e superbi attori dove nessuno è secondo, ma ognuno nel suo incanta.
E il delirio di grandezza, il falso convincimento di Raskol’nikof di avere con la sua azione delittuosa, crudele, liberato il mondo dall’infamia dell’usuraia, dove altri hanno visto – come Pasolini – un desiderio inconscio di sterminio familiare di madre e sorella, cede di fronte all’amore tenero e sincero di Sonja, prostituta per desolazione e per fame. Ci sono 4 attori a ringraziare il pubblico in piedi, ci sono 4 attori a ricevere l’applauso caloroso degli spettatori, ma sul palco si sono alternati con voci, movenze e gesti 16 personaggi che Sergio Rubini, Luigi Lo Cascio, Francesco Bonomo e Francesca Pasquini hanno mosso con maestria, con quel mestiere vero e finto, grande irripetibile e magnifico che è quello dell’attore.
Francesco De Masi
Foto Serena Pea