Crisi di conoscenza contemporanea: Marco Cacciola porta ad Asti “Io sono. Solo. Amleto.”
Domenica scorsa, il 30 giugno, si è conclusa la 41a edizione del Festival di Asti Teatro. Anche quest’anno, come per il precedente, la direzione artistica è stata affidata a Emiliano Bronzino: torinese, classe 1974, ex allievo dello Stabile, discente di niente meno che Luca Ronconi, regista per il Piccolo di Milano e molto altro ancora. In breve, comunque, un uomo di teatro ampiamente riconosciuto nel vecchio contenente.
Uno degli ultimi spettacoli nella variegata programmazione del festival era “Io sono. Solo. Amleto”, scritto e interpretato da Marco Cacciola nella splendida Ex Chiesa del Gesù, all’interno del Complesso del Michelerio di corso Alfieri. Diciamolo subito: Cacciola ha voluto reinterpretare la celeberrima pièce di Shakespeare per plasmare un’occasione teatrale che riflette sul valore archetipico dei personaggi, ed è riuscito nell’intento senza distaccarsi mai troppo dal valore del testo originale. La trama viene pressoché annullata, ma l’essenza dei caratteri rimane viva e palpitante attraverso i discorsi dell’attore, che prima è il fantasma del re, poi Amleto, poi Polonio, poi Ofelia, e così via. E in un non-luogo privo di una reale scenografia – quasi un limbo metafisico dove l’uomo può riflettere, lambiccarsi – ogni personaggio riemerge da sé stesso per rielaborare le problematiche che lo riguardano o per proporre una rinnovata visione sulla vita (o sulla morte). Cacciola intreccia quindi alcuni segmenti originali della tragedia (opportunamente riformulati) con svariati stralci tragicomici che attualizzano il testo in maniera più o meno forzata ma in fin dei conti sempre riuscita. Per capirsi meglio, però, forse è bene partire dal titolo: Io sono. Solo. Amleto. va infatti inteso come la convergenza intelligente di tre assi d’analisi. Il primo asse – Io sono – ci riporta alla celebre e inflazionata formula dell’essere o non essere?, ma qui il problema è già stato risolto, perché tutti siamo qualcosa, tutti siamo umani in un modo così personale che forse questo nuovo Amleto non avrà neanche più voglia di vendicare il padre. Il secondo asse – Solo – indica la fragilità con la quale ci imponiamo sullo spaziotempo, ma forse anche la scelta di Cacciola di impersonare ogni componente della corte di Elsinor. Infine, il terzo asse – Amleto. -, che chiaramente scoperchia un immaginario talmente vasto da non poterlo riassumere in queste poche righe.
“Io sono. Solo. Amleto.”è uno spettacolo avvolgente: entro i primi cinque minuti, il pubblico entra in sintonia con quanto accade sul palco. Complice, in questo, la prospettiva dalla quale Cacciola sfrutta l’azione attorale e lo sfondamento della quarta parete: tutto si apre, infatti, con le voci degli spettatori stessi, che vengono esortati a leggere i testi proiettati sullo sfondo in un microfono attaccato ad una lunga asta che l’attore tiene in mano. Un’idea brillante, per una ragione che però si capirà solo alla fine dello spettacolo. Anche le partiture discorsive concorrono a creare un senso di ricercata armonia tra l’astante e il personaggio, dove Cacciola assolve eccellentemente al ruolo di pontefice tra i due. Di solito gli spettatori percepiscono una vicinanza tra le proprie biografie e quella di Amleto, mentre qui ricevono le prove che in fondo noi tutti siamo Amleto: tutti abbiamo un padre da vendicare, una Gertrude da perdonare, un Polonio da sopportare. Tutti, poi, dovranno prima o poi affrontare la morte della propria Ofelia. E in questo senso, nella versione di Cacciola il personaggio più sconvolgente diventa – strano a dirsi – Claudio. Già, proprio quel Claudio che di solito non viene problematizzato perché alla fin fine un antagonista un po’ stereotipato fa sempre comodo, al regista ma anche allo spettatore. Gli altri personaggi sono affascinanti nei loro modi di riproporsi, ma il Claudio di Cacciola è semplicemente scioccante, rimane impresso nella mente proprio perché mentre parla sgretola la sedia sulla quale sei seduto e anche il mondo che c’è sotto. Claudio, nel testo originale, ha ucciso il padre di Amleto e sposato sua moglie, la regina Gertrude: nel terzo atto, disperato, chiederà aiuto a Dio affinché gli angeli lo soccorrano e tutto si risolva. Qui, invece, quando arriva il momento del rimorso, Claudio non sa più come pregare perché tanto non ha senso appellarsi a un dio ipocrita, che prima ci dona il peccato e poi si lamenta se ci uccidiamo a vicenda. Io non lo voglio il tuo perdono!, grida Claudio. Perché d’altronde, se siamo peccatori, in primis è colpa di Dio stesso. Diranno i più colti che tutto ciò è presente, in controluce, anche nel sottotesto di Shakespeare. Ma sentirselo dire a chiare lettere fa un certo effetto. Particolarmente audace, poi, il finale, per il quale è stato estrapolato dal testo un messaggio sociopolitico d’indubbia efficacia. Marco Cacciola è stato molto bravo, il risultato è davvero avvincente, inedito, per nulla ordinario: il pubblico torna a casa con qualcosa in più.
Davide Maria Azzarello