“Cos’hai nel sangue”: delle catene difficili da spezzare
“Cos’hai nel sangue” (nottetempo, pp. 260, euro 15), vincitore del Premio Arfelli, è il primo romanzo di Gaia Giovagnoli , laureata in Lettere moderne e in Antropologia culturale all’Università di Bologna.
Un sogno, forse un ricordo, di chi non si sa bene.
Si apre così il romanzo in cui è la visita dell’antropologo Alessandro Spina a fare da spartiacque tra un prima e un dopo, tra passato e presente, a dare un senso a quel sogno/ricordo e a tracciare il futuro.
L’antropologo Alessandro Spina bussa alla porta di Caterina e della madre per un’intervista. È così che Caterina scopre che sua madre ha un passato rimosso e subito sente che vuole conoscere tutta la verità. Ripercorre dunque le ricerche di Spina su Coragrotta, borgo inquietante e isolato, in cui la madre è nata e cresciuta. Un luogo che nasconde più di una verità. E che piano piano si svelerà attraverso tradizioni, credenze, magia, uomini e donne con ruoli assegnati/segnati.
“Sperava che rompessi il cerchio. Che la salvassi. Non ne sono stata capace, le avrei voluto dire. Non è questo il tuo compito, mi avrebbe risposto. La vera forma del sangue è una catena, e il suo peso è insostenibile.”
Il confine che Giovagnoli descrive tra reale e immaginario, tra uomo e soprannaturale diventa pretesto per toccare in profondità temi tutt’altro che facili, e lo fa in modo non banale, con un ritmo incalzante, con immagini che ti trascinano in avanti veloce nella lettura.
Il romanzo è innanzitutto la storia di un rapporto travagliato tra madre e figlia, in cui entrambe sentono il peso e la responsabilità di sciogliere nodi che non hanno creato, ma anzi hanno tentato di spezzare. Un rapporto madre/figlia fatto di ricerca di assenso anche a costo di farsi del male fisico, giocando con la morte pur di avere una dimostrazione d’amore. Anche quando Caterina scava in un passato che è della madre, ma anche suo, lo fa non solo per capire ma anche per disobbedirle e avere, ancora una volta, una reazione.
Un rapporto madre/figlia che ci spiega come sia difficile cambiare la propria natura e come non debba per forza essere un peccato, essere quello che si è.
Nel romanzo c’è questa ricerca delle proprie radici, come se tornare alla fonte potesse sconfiggere il destino e la colpa che si tramanda di generazione in generazione. Ci sono riferimenti psicologici e antropologici, sulle catene che si creano e sulla possibilità, o meno, di spezzarle.
C’è una visione femminista forte, in cui le donne hanno sì come obiettivo la procreazione, ma hanno in mano tutto il potere, gli uomini sono degli oggetti svuotati di ogni valore, assoggettati a credenze e maledizioni.
C’è un tema altrettanto forte del rapporto uomo/natura e di come questo si alteri per profitti economici.
C’è vento, che è quello che investe i rapporti descritti in queste pagine che sono anche una storia di come l’amore sia imperfetto e capace di esistere solo nella sua imperfezione.
“Il modo di volermi bene della mamma è stato così simile a una stanza piena di vento. Le porte che sbattono, le finestre spalancate, che franano a terra. Ora me ne rendo conto. (…) Ho sempre saputo che quel disastro di vetro, quella confusione sugli stipiti, era il suo modo di proteggermi. L’unico che aveva imparato.”
Laura Franchi