“Contro l’interpretazione e altri saggi” di Susan Sontag
“Nessuno di noi potrà mai ritrovare quell’età dell’innocenza anteriore a ogni teoria, in cui l’arte non aveva alcun bisogno di giustificarsi, né ci si chiedeva cosa dicesse un’opera d’arte, perché si sapeva (o si credeva di sapere) cosa facesse. Finché avremo una coscienza, saremo costretti a dedicarci al compito di difendere l’arte”.
Aveva trentun anni Susan Sontag quando, nel 1966, pubblicò Contro l’interpretazione, “un testo quintessenziale di quell’epoca” – come scrive trent’anni dopo l’autrice stessa – che ora ritroviamo nel volume “Contro l’interpretazione e altri saggi” (traduzione di Paolo Dilonardo, postfazione di Susan Sontag e nota di Daniele Giglioli) edito da nottetempo, un lavoro amabilmente critico che l’intellettuale statunitense svolse al 1962 al 1965.
La sua analisi dell’arte in fuga da ogni tipo di interpretazione è nitida, spietata e non fa sconti a nessuno, è ” ‘un atto di liberazione intellettuale’ che la fa in breve diventare una figura di riferimento dello scenario contemporaneo”. Si parte dalla teoria mimetica dei filosofi greci che “sfida l’arte a giustificare sé stessa”, implicandola esclusivamente come figurativa. Anche nel momento in cui l’arte ha cominciato a connotarsi come espressione della soggettività, l’assunto principale della teoria mimetica non è decaduto: il contenuto rimane prioritario, “ma si continua a presupporre che un’opera d’arte sia il suo contenuto. Oppure, come si suole affermare oggi, che un’opera d’arte per definizione, dica qualcosa”. Interpretare un’opera d’arte significa tradurla, quindi “non lasciarla in pace”, renderla gestibile e malleabile. Pensiamo, ad esempio, a ciò che è stato detto di Kafka o Beckett e ancora Proust, Joyce, Rilke, Gide e tanti altri. È nel significato che viene dato loro che, queste opere o importanti film, diventano falsi e difettosi. La Sontag si sofferma su come, quindi, le interpretazioni diventino una sorta di insoddisfazione verso l’opera e “il desiderio di sostituirla con qualcos’altro”: una vera e propria violazione dell’arte, fino a trasformarla “in un oggetto d’uso, da inquadrare in uno schema di categorie mentali”. Per evitare l’interpretazione l’arte fugge, mutando, finché non vi si sottrae, come ha fatto, ad esempio, la poesia moderna, nel particolare la lirica francese, o la pittura moderna, pensiamo alla Pop Art, per ritrovare la trasparenza come “esperienza della luminosità della cosa in sé, delle cose così come sono”.
“In teoria, è possibile eludere gli interpreti anche in un altro modo, creando opere d’arte la cui superficie sia così unitaria e limpida, il cui ritmo sia così rapido, il cui tono sia così diretto che l’opera potrà essere… soltanto ciò che è. È possibile, oggi? Accade già, a mio avviso, nel cinema. Per questo il cinema è attualmente la forma d’arte più viva…”
È quindi assolutamente necessario recuperare i nostri sensi, per andare oltre:
“Oggi è importante recuperare i nostri sensi. Dobbiamo imparare a vedere di più, a udire di più, a percepire di più. Il nostro compito non è individuare la massima quantità di contenuto possibile in un’opera d’arte, né, tanto meno, estrarne più contenuto di quello già presente. Il nostro compito è minimizzare il contenuto in modo da riuscire a vedere l’oggetto in sé.
Oggi il fine di ogni commento sull’arte dovrebbe essere quel lo di rendere le opere d’arte – e, per analogia, la nostra stessa esperienza – più, e non meno, reali ai nostri occhi. La funzione della critica dovrebbe essere quella di mostrare come è ciò che è, e perfino che è ciò che è, piuttosto che mostrare cosa significa”.
Si spazia dall’Arte di scrivere di Cesare Pavese – scritto tra il 1935 e il 1950 – che “in quanto essere umano soffre; in quanto scrittore, trasforma la sofferenza in arte”. La sofferenza diventa qui letteratura, solitudine e suicidio come reazione alla sofferenza stessa. In questo diario l’autore si interroga e giudica sé stesso. Troviamo un’attenta riflessione sul film-testo-saggio Vivre sa vie di Jean-Luc Godard – che ci ha lasciato ieri, 13 settembre, all’età di 91 anni – dove al centro della discussione ci sono le idee “nel senso migliore, più puro e sofisticato in cui un’opera d’arte può avere per ‘oggetto’ le idee”, andando “fino alla fine di quell’idea”, mostrando “che qualcosa è accaduto, non perché sia accaduto”. Le Note sul “Camp” scrivono in modo dettagliatole forme della sensibilità, la sua essenza è l’amore per ciò che è innaturale, vale a dire artificio, esagerazione, esoterismo. E, ancora gli happening o riflessioni sullo stile al centro dell’espressione artistica; e personalità come Simone Weil, Camus, Artaud e tanti altri.
Audace, impavida e decisa nella sua scrittura, la stessa Sontag si definisce “un’esteta battagliera e una malcelata moralista” nella sua magistrale capacità di movimento all’interno di tematiche che spaziano dalla letteratura, alla pittura, al cinema e al teatro.
Marianna Zito