Congiunzione astrale: Torino celebra Giorgio Strehler
Lunedì 12 luglio, ore 21. Il cortile di Palazzo Arsenale non è proprio gremitissimo: ci sono più che altro addetti ai lavori, amici, giornalisti, appassionati. Tanti giovani curiosi, tanti anziani nostalgici. Sale sul palco Lluís Pasqual, il regista, che introduce al senso della serata: siamo qui per una cerimonia improvvisata. Il festeggiato è Giorgio Strehler, di cui ricorre il centenario dalla nascita. Le convitate: Marta Comerio, Andrea Jonasson, Giulia Lazzarini, Pamela Villoresi, Margherita di Rauso. Allieve, colleghe, amiche, una moglie. Il programma prevede un’alternanza di aneddoti, letture e musiche classiche selezionate in base ai gusti del compianto. È una messa in suffragio, un documentario, una celebrazione, un momento di divulgazione, ma per certi versi è anche la serata più ambiziosa di tutta la stagione estiva del Teatro Regio: Strehler vuol dire Milano, e la rivalità tra la Mole e la Madonnina, tra la capitale e un ex ducato, è antica, assodata, quasi ufficiale. Se n’è scritto sui giornali, lo confermano parecchie madamine in platea: noi siam venute, sì, perché siamo aperte di mente, curiose, dròle… ma nessuna di noi si sognerebbe mai di andare a vedere uno spettacolo al Piccolo. Come a dire: sia chiaro, io stasera vengo perché sono fedele al Regio, perché d’estate non ho impegni se non le gite a Portofino e Sestriere, ma non chiedetemi di entrare in territorio nemico, e pensateci due volte prima di portare qua le regìe di uno straniero. Ci perdoneranno i lettori se riportiamo la verità nella sua foggia più pungente, brutale, ma siamo onesti: questo spietato folclore da Italia dei comuni sdilinquisce tutti, nel calcio come nel teatro. Il fatto è che per un torinese della Crocetta o di Crimea, per la brigata Punt e Mes della precollina, ma poi in generale per tutti coloro che vogliono essere obiettivi, Strehler rappresenta un teatro validissimo, l’avantgarde, il cui processo di beatificazione lascia tuttavia molto spazio ad una sana titubanza anti-elitista. Ne parlo con un’amica che non vuole rivelare la sua identità: Elena, diciamo, che si è laureata a Palazzo Nuovo con Gian Renzo Morteo, e che del professore era diventata anche una amica. Elena mi racconta che Morteo, per esempio, nutriva un profondo rispetto per Strehler e per la sua ricerca, ma era palese a tutti che si trattava di un teatro che col tempo è stato istituzionalizzato: insomma, al Piccolo ci si andava in ghingheri, mentre sarebbe interessante soffermarsi anche sulle sperimentazioni di altri, di quelli che portavano il teatro nelle fabbriche. Poi certo, gli spettacoli di Strehler sono arrivati anche qui, ma innanzitutto non hanno mai funzionato come a Milano, e poi non sono sopravvissuti allo scorrere del tempo: le sue creazioni, per quanto rispettabilissime, così come la sua filosofia, prosperano essenzialmente nella riserva che era e che è il Piccolo. Malgrado ciò, osservando la questione da un punto di vista diverso, si può notare l’encomiabile intento riconciliante del Regio, che cercava di superare un reciproco disamore. Dati questi presupposti, comunque, il pubblico si è diviso: alcuni vanno via prima, altri rimangono a chiacchierare con la Lazzarini anche dopo l’applauso. Taluni ricusano, talaltri acclamano; nessuna tenzone dichiarata, molto gelo fra le parti. Noi, naturalmente, ci dichiariamo neutrali.
Che figura emerge? Chi era, cosa faceva questo socialista triestino? Se sul palco abbiamo degli apostoli, l’icona non può che risultare misterica. Figlio d’arte: famiglia di musicisti, nonna parigina, a tavola si parlavano quattro lingue. Lo definiscono un poeta della regia, poi ammettono che delle sue regìe sono rimaste solo alcune ombre: i ricordi indelebili vanno cercati in altri ambiti. Non si sa per chi gettasse il sassolino nell’urna, ma è facile escludere alcuni partiti e protendere per altri: predica a favore dell’europeismo, poi critica Strasburgo perché i deputati non discutono mai di cultura; è fiero della sua italianità, ma non del nostro senato. Se non fosse stato un regista, avrebbe voluto dirigere le orchestre: mentre prepara Le nozze di Figaro con Riccardo Muti, cede la regia e tutti gli aspetti attorali al maestro in cambio di qualche istante sulla pedana con la bacchetta. Dice: Non m’importa di essere capito, mi basta essere ascoltato. Sottotesto: dei rischi dell’autoreferenzialità me ne frego. Non si riconosce nelle foto scattate durante le prove. Spiega che il teatro non può essere una mera contemplazione passiva. Noi amiamo il riposo, ma disapproviamo l’ozio. Sì, parla anche a nome dei suoi spettatori, ma se a loro sta bene così, che si può fare? La sindrome di Stoccolma miete vittime anche tra i colti. Prosegue: …il teatro è il luogo dove le comunità riscoprono sé stesse (Brera, San Marco, Porta Garibaldi… lì bisogna riscoprirsi). Rifiuta il fascismo e il pensiero unico, denuncia l’ipocrisia della società che già negli anni Cinquanta stava costruendo un destino arido, dominato dalla freddezza e dall’intolleranza. E a distanza di qualche decennio, basta aprire gli occhi per rendersi conto che aveva ragione. Scrive Per un teatro umano. Pensieri scritti, parlati e attuati (Feltrinelli, 1974), che pare sia pieno di perle, e altri saggi, lettere, un’intervista a sé stesso. In una missiva ad Andrea Jonasson (Parigi, ottobre 1978) si autodefinisce fanatico, mistico, rivoluzionario. Tipo Narciso: c’è della vanità. Giulia Lazzarini legge una lettera che Giorgio le aveva mandato alla vigilia di una prima importante, poi si passa ad un brano da L’anima buona di Sezuan, poi alla lettera per Mozart (Milano, 1987), poi a quella per Fiorenzo Carpi, infine a Il Campiello (Milano, 1972) e alle due dissacranti vecie veneziane. Nel frattempo, le proiezioni sul fondale: le foto con Milva, con Ferruccio Soleri, archivistica varia, Marcello Moretti che gioca col budino mentre interpreta Arlecchino.
La musica accompagna: un notturno di Schubert, l’Eine kleine Nachtmusik di Mozart, l’ouverture del Don Giovanni, Carpi con Platonov e Il gabbiano, e per concludere ancora Mozart con due brani da Così fan tutte. Due violini, una viola, un violoncello, un pianoforte: i musicisti del teatro sono impeccabili, ma in nessun modo protagonisti. Accompagnatori, appunto: allietano, rievocano. La musica come strumento e non come fine. Scelte registiche, ovviamente: nulla di imputabile al Regio, al quale va comunque tutta la nostra approvazione per l’ardimento e lo spirito innovatore e pacifista.
Davide Maria Azzarello