“Come tremano le cose riflesse nell’acqua”: Liv Ferracchiati, Cechov e i suoi personaggi in cerca di amore sull’orlo dell’abisso
“Per tutta la vita sono stato un impostore. E non esagero. Ho praticamente passato tutto il mio tempo a creare un’immagine di me da offrire agli altri. Più che altro per piacere o per essere ammirato.
Forse è un po’ più complicato di così. Ma se andiamo a stringere, il succo è quello: piacere, essere amati. Ammirati, approvati, applauditi, fa’ un po’ tu. Ci siamo capiti”.
Tratto da “Il grande neon” di David Foster Wallace
Sono numerose le chiavi di lettura, e i pensieri che suscita questo nuovo lavoro di Liv Ferracchiati; ma se proprio vogliamo individuare ciò che davvero racchiude e condensa lo spirito con il quale l’autore e regista ci regala la sua lettura del capolavoro di un drammaturgo a lui particolarmente caro come Anton Cechov (Chayka, il Gabbiano), è al titolo che dobbiamo guardare. A tremare sull’acqua del lago (vero protagonista dello spettacolo) infatti, non sono soltanto le cose ma sono soprattutto i personaggi che, affacciati sull’orlo sull’abisso della loro esistenza, vedono l’immagine deformata di ciò che “sarebbe potuto accadere, di ciò che “sarebbero potuti essere”. In questo gioco narcisistico di riflessi e di profonde e disperate riflessioni ciascuno individua un oggetto del desiderio che si rivelerà comunque inadeguato o irraggiungibile. Così come i personaggi del precedente, e altrettanto eccellente, lavoro “Ibseniano” di Liv Ferracchiati, “Hedda Gabler”, ci erano parsi disperatamente in cerca di autore, questa volta ciò che accomuna gli otto personaggi è una disperata richiesta d’amore che, espressa in varie forme ma rivolta comunque sempre verso la persona sbagliata, rimarrà per tutti inevitabilmente inappagata. “Che senso ha?”, è la domanda che aleggia sulle loro esistenze.
Il pugno sul tavolo che tutti vorrebbero dare per incidere sulla realtà intorno a loro, per incidere in qualche modo, non produce effetti: è un pugno dato nell’acqua, che produce piccole onde deformandone la superficie per un tempo breve, brevissimo, prima che tutto si calmi e torni alla quiete iniziale. La realtà è che ciò che veramente può cambiare le cose sono soltanto le “onde del destino”; e forse non è un caso se è proprio nelle immagini tremolanti del film di Lars Von Trier che ci sembra di ritrovare la stessa cupa disperazione e quel cupo senso di ineluttabilità che attraversa tutta l’opera.
Detto questo, la firma di Liv Ferracchiati, questa volta non presente in scena, è chiaramente riconoscibile oltre che nella più che matura precisione con cui riesce a integrare ogni elemento (dalle scelte di scenografia, alla musica, alla conduzione di attori peraltro eccellenti anche nelle vesti, in alcuni casi, di personaggi apparentemente lontani dalle loro corde) e a dare in generale quel senso di fluidità e contemporaneità che contraddistinguono lo spettacolo e aiutano a mantenere viva l’attenzione rispetto alla complessità del tema. La sua impronta è assolutamente riconoscibile (anche “al buio”, come nell’efficacissimo inizio), anche nella capacità di destabilizzare il pubblico con attimi deliziosi di vera e propria comicità (memorabile in questo senso la “scena Tenco”, inserita a sorpresa in uno dei momenti più cupi e drammatici dello spettacolo) che valorizzano per contrasto il flusso drammaturgico e ci tengono attaccati agli accadimenti. È questa ironia di fondo, più o meno sottile, una delle doti che avvicinano, in un certo senso, Ferracchiati ai due coautori, insieme a lui, dello spettacolo: Anton Cechov e soprattutto David Foster Wallace.
DFW rappresenta, in particolare, una lente d’ingrandimento che l’autore-regista di questo spettacolo dimostra di conoscere e saper usare “alla grande” e che ci consente di leggere l’opera di Cechov da una prospettiva nuova… forse come direbbe qualcuno più “contemporanea”, comunque diversa, indubbiamente davidfosterwallaceiana, in piena sintonia con la poetica mai banale di Liv Ferracchiati.
Il punto non è la meta, è il viaggio; non è il finale, è ciò che sta prima.
Non è perciò un caso se a un certo punto la “fine” ci sia chiara e ci venga di fatto rivelata, proprio come avviene nel racconto citato nel titolo:
“A proposito, lo so che questa parte è noiosa e probabilmente ti annoia, ma si fa assai più interessante quando arrivo alla parte in cui mi uccido e scopro quello che succede dopo che una persona muore”
ci dice a un certo punto David Wallace (!), il protagonista de “Il grande neon” di David Foster Wallace… e così Kostja, devastato dall’impossibilità di superare il “paradosso dell’impostore” per cui si finisce per scrivere (e per vivere) alla ricerca del consenso degli altri, si suicida, proprio come lui.
La giusta conclusione, a questo punto, potrebbe essere quella del racconto di DFW: “Non una parola di più”.
Io, per mitigare la disperazione (o forse no), preferisco queste altre sue parole, solo apparentemente più consolatorie:
“La vostra preoccupazione per ciò che gli altri pensano di voi scompare una volta che capite quanto di rado pensano a voi.”
David Foster Wallace
A. B.
Fotografia di Masiar Pasquali
Teatro Piccolo Studio Melato
27 gennaio – 25 febbraio 2024
“Come tremano le cose riflesse nell’acqua”
drammaturgia e regia di Liv Ferracchiati
liberamente ispirato a Il gabbiano di Anton Čechov
con (in ordine alfabetico) Giovanni Cannata, Roberto Latini, Laura Marinoni, Nicola Pannelli, Marco Quaglia, Camilla Semino Favro, Petra Valentini, Cristian Zandonella