Colline torinesi: un djset sul Manfred di Byron
Nebbia. Buio, quattro fari: due a destra e due a sinistra. Moduli di musica minimalista, grave, greve, gutturale. Violoncelli? Vibrazioni, clangori. Tipo Philip Glass. Temporali, automobili. Trapani? Riverberi, risacche di suoni industriali. I bassi son bassi come nelle scene più violente degli horror. Sul programma di sala c’è scritto che è l’opera 115 di Schumann ad accompagnare la performance. Arriverà mai? Se sì, noi non ce ne siamo accorti. Tre fiammelle, non candele. Lampade ad olio, forse. Si dirada la foschia, e al centro del nulla ecco una consolle: due figure in vesti nere fino al ginocchio. Lui suona, lei parla, canta e porta in giro un turibolo fumante d’incenso, come il prete la domenica. Sembra un rito, un’iniziazione. Partono le stroboscopiche, i movimenti (già minimi) rallentano. Gli occhi sfarfallano. Nessuno ci ha avvertiti che sarebbero durate per quasi tutto lo spettacolo. Con un filo di ritmo in più sarebbe una discoteca: l’istinto è quello di alzarsi e dondolare, oscillare. Sugli schermi laterali, intanto, scorre il testo interpretato da Maria Alterno.
Siamo in Fondazione Merz, via Limone, San Paolo. Il Festival delle Colline Torinesi, come da tradizione, procede anche in luoghi che abitualmente non si occupano di teatro. Venerdì 28 ottobre, ore 19, prima di due repliche su due giorni consecutivi; le rappresentazioni si affastellano ma si fa quel che si può. Il duo padovano Madalena Reversa – formato da Alterno e Richard Pareschi – porta sul palco Manfred, live-set […] che vuole coniugare teatro e visual-art, installazione e performance. Il tutto si basa sul Manfred di Byron, closet-drama in parte autobiografico del 1816 su questo giovane nobile che chiede l’oblio agli spiriti: parallelamente, in questa interpretazione, siamo noi a invocare la dimenticanza, la scomparsa di noi stessi. Il testo del lord poeta si trasla su un piano apocalittico, dove la Fine pare essere l’unica risoluzione plausibile in un presente di eterna distruzione. Manfred è l’ecodramma della nostra esistenza, lo spirito del nostro tempo, l’umanità presa a morsi da sé stessa, barcollante in una bufera di ululati lugubri, si legge sulla scheda.
Di per sé, si tratta di un’occasione artistica sicuramente suggestiva. Tuttavia, c’è qualcosa di ostico. Non è solo teatro, le contaminazioni sono tante e diversificate: insieme, collaborano e non. Le componenti stridono. Non c’è quella recitazione classica e classicheggiante alla quale, è inutile negarlo, siamo abituati e/o legati culturalmente. Manca il rispetto di alcuni di quei parametri che solitamente associamo alla tragedia. Eppure. Eppure, se uno ci pensa, a Lord Byron sarebbe piaciuto, perché in fin dei conti la formulazione dell’atto riprende, esalta ed esacerba quel romantisme oscuro, gothic, che generalmente associamo all’immaginario nel quale ci hanno insegnato a calare, primi fra tutti, Byron e Shelley. Ora, lo sappiamo, si sa: c’è un di più. Nondimeno, effettivamente, Manfred è anche una celebrazione della morte, che noi possiamo intendere attraverso il simbolismo, l’esoterismo e così via. Ma sempre di morte si parla, con la sua natura transitoria e ciclica, speculare alla nascita. Si capisce che la fruizione di tutto ciò non è immediata, però non bisogna commettere l’errore di liquidare la questione in questo modo. L’analisi va portata oltre. L’esteriorità della terra mi ha fatto impazzire, si legge e si sente ad un certo punto. Probabilmente non è la frase più potente – impossibile seguirle tutte, con quelle luci – benché riveli forse una chiave di lettura possibile: la fruizione di una cosa del genere è difficile perché si sta rappresentando quello che di più inspiegabile e metafisico e fosco ci sia: la follia, l’horror vacui dei nostri pensieri, delle nostre strutture. E della natura.
Davide Maria Azzarello