Colline Torinesi: Anagoor porta Zanzotto all’Astra di Torino
Flash, lampi, il Recitativo Veneziano dal Filò di Zanzotto sbraitato e sputato, si parte da un’acme, poi si comincia davvero. Il sipario si alza: al centro c’è un paesaggio su tela. Sì, è la Tempesta di Giorgione, primi del Cinquecento. Lo si può vedere a Venezia, in accademia. Difficile da interpretare, facile da ammirare, da sempre divide gli storici. Salvatore Settis ci ha scritto un saggio per Einaudi. Effettivamente, se visto dalla giusta prospettiva, può sembrare quasi un’icona pre-metafisica, dove ogni dettaglio è libero di tradire o mistificare gli altri elementi. C’è tanto verde, un fiume, qualche casa sull’acqua, le nuvole, la folgore, e tre personaggi: uomo, donna e bambino. C’è tutto e non c’è niente. Se poi si considera che in questo caso, sul palco, le tre figure son state rimosse per lasciare allo spettatore solo l’esperienza del paesaggio, capiamo che sta per accadere qualcosa. Per terra, attorno al quadro, teli di plastica, rulli di quelli per dipingere, vernice nera in bacinelle basse, microfoni. Da un lato emergono due persone e parlano fra di loro, dandoci le spalle. Portano in mano due lampade a tubo, verdognole, come quelle che si vedono sui soffitti di certi uffici tristi, e con queste illuminano brani del dipinto discutendo di esso, o forse con lui.
Anagoor, per tanti versi un nome una garanzia. Indimenticabile, per esempio, la loro Orestea. Ormai, forse, non hanno neanche più bisogno di presentazioni: basta ricordare che hanno vinto il Leone d’Argento alla Biennale Teatro del 2018. Profondi indagatori dell’intimo, veneti, politici ed esteti. Massimalisti delicati. Un collettivo che sembra quasi una chiesa: stile personale e facilmente individuabile, hanno i loro ritmi, le loro inflessioni, i loro riti. Domenica 16 ottobre, Teatro Astra: per il Festival delle Colline Torinesi presentano Ecloga XI a Torino. Sono partiti dalle IX Ecloghe pubblicate nel ’62 da Andrea Zanzotto, che a loro volta si basano sulle dieci Bucoliche di Virgilio. Stratificazioni: ci sono il Novecento, l’antichità, e con Giorgione anche quel che ci fu in mezzo. Il tema? Non si sa quanto verde sia sepolto sotto questo verde. Cioè: la Natura dov’è? Cos’è? E non la natura intesa come flora fauna e compagnia, quanto piuttosto come la forza statica e motrice che si fa contesto e scenografia nell’esistenza di chiunque. Un fatto, un palco senza dimensioni, una struttura, l’urbanistica primigenia. E quindi ciò che ne discende o che quantomeno le corre parallelo: l’arte. L’arte? Anche qui, non i dipinti o le sculture, ma l’azione generica che celebra la vita. Leda Kreider e Marco Menegoni ne disquisiscono rivelandosi indefessi, con le loro parti disincantate e fluttuanti. Sono loro l’uomo e la donna del quadro; ne sono emersi per raccontare qualcosa che non sanno ma che percepiscono. Si pongono delle domande, e le risposte galleggiano fra le loro menti e quelle del pubblico. Entrano ed escono dal pomerio dei loro pensieri, discutono della sacralità dei luoghi. E ora spoiler sull’acme vero: Lui è nudo, è Adamo, prende un rullo e lo immerge nella pittura. Traccia una riga corvina e opaca sul paesaggio di Giorgione. Cede il testimone a Lei, che (sempre col rullo) prima disegna una specie di ponte e poi lo chiude, rendendolo un muro. Si intravedono ancora le cime degli alberi e il fulmine in un cielo che a guardarlo bene sembra ottanio, petrolio. Saranno le luci? Infine, solo il nero, il vuoto: decadenza o rinascita? Poi il testo vira, alternando inglese e italiano. Leggono. In qualche modo siamo giunti a Claude Eatherly, ovvero l’aviatore che nel ’45 andò in ricognizione sui cieli di Hiroshima per consentire all’Enola Gay di partire, distruggere e uccidere. Günther Anders, il filosofo tedesco, scoprì che Eatherly viveva nel rimorso più acuto: aveva abbandonato l’esercito, la famiglia, la vita, entrava e usciva dal manicomio. Così intraprese con lui uno scambio epistolare, il quale diventa funzionale all’interno di questo spettacolo se si considera tutto ciò che giace dentro questi eventi: il cupio dissolvi, l’involuzione, il tramonto, i presunti beni superiori, la giustizia calpestata dagli ideali. Il tutto si conclude con una nuova scena, diversa, traslucida, nera e vegetale, come una foresta pluviale a un tempo rassicurante e minacciosa: è un’evocazione di Wood#12 A Z, opera di Francesco De Grandi, pittore palermitano classe 1968.
Ecloga XI è diretto da Simone Derai, che ha curato la drammaturgia con Lisa Gasparotto: la regia è posata, si lascia percepire senza essere invadente. In generale, si tratta di un’occasione teatrale rispettabile: l’inflessione è greve, sì, ma ben venga anche la serietà. È onesto ammettere però che è necessaria una passione piuttosto sfrenata per il teatro per poter apprezzare sino in fondo un prodotto come questo, a tratti (volutamente) verboso e poi, con delle brusche sterzate, così intenso ed autorevole. È come un’altalena: per andar su bisogna darsi la spinta. E Anagoor propone questo: di arrivare in alto ma meritandoselo.
Davide Maria Azzarello