“Cleopatràs” inaugura il Progetto Testori di Valter Malosti al Teatro Carignano di Torino
Ma che bello poter tornare a teatro. Dentro, s’intende. Non nei giardini, nei chiostri, nei parchi, nelle piazze, ma al Carignano, con tutto il suo splendore sabaudo di velluti, poltrone poco ergonomiche, palchi privati e giovani aitanti maschere che ti indicano dove sederti. Per la verità, comunque, il Carignano aveva già riaperto i battenti quest’estate, con quei Summer Plays (in inglese, perché?) che miravano essenzialmente al recupero parziale di quel che non si è potuto fare da marzo a giugno di quest’anno per le ragioni che tutti conosciamo. E a conclusione di questi Summer Plays, in un’estate che però è già diventata settembrina, abbiamo Il Progetto Testori di Valter Malosti, l’istrione pluripremiato già ampiamente conosciuto e collaudato che di solito non ha bisogno di presentazioni. La produzione, ovviamente, è del Teatro Piemonte Europa, dove Malosti è direttore e che di solito, però, è di stanza al Teatro Astra del Campidoglio. Hanno collaborato col TPE l’Associazione Giovanni Testori e, prevedibilmente, il Festival delle Colline Torinesi di Sergio Ariotti. Il progetto concerne soprattutto I Tre Lai – Cleopatràs, Erodiàs, Mater Strangosciàs, opera trina e una definita in più occasioni come il testamento teatrale di Giovanni Testori (Novate Milanese, 1923 – Milano, 1993). Del testo, pubblicato postumo, esistono vari manoscritti e altrettanti dattiloscritti con le correzioni dell’autore; il che già ci lascia percepire come questo lavoro sia in qualche modo attanagliato da un impetuoso tormento vibrante, sotterraneo come può esserlo solo il magma d’un autore che dubita di sé stesso.
L’altro ieri, martedì 8 settembre, c’è stata la prima assoluta di Cleopatràs. Testori, per la regina che apre la sua trilogia, ha riplasmato l’Egitto romano di Shakespeare sovrapponendolo alla valle del fiume Lambro, e poi ha gettato nel calderone tutt’una serie di riferimenti letterari e operistici che spaziano da Dante a Goldoni a Puccini, creando così un monologo ossessionato, terreno ma anche fluttuante, sensuale ma anche conturbante quando non apertamente volgare; un soliloquio straziante e sarcastico. Tanto che non si tratta più solo d’una regina, ma di una grandiosa nobile donna, femmina consapevole e libera, maestosa meretrice senza tempo, soubrette tramontata ma mai dimenticata. Sul palco, i suoi ultimi momenti di vita: sa di doversi suicidare, ma prima ha qualcosa da raccontare, e il pubblico non lo dimenticherà facilmente. E dunque riemerge da sé stessa, dalla sua morte che sta per avvenire, che a tratti sembra già avvenuta e che sul finire del monologo verrà comunque inscenata, anche se qua non abbiamo l’aspide, ma una docile siringa letale che in silenzio lacera una vena, mentre Cleopatra è seduta sul bordo del letto in una camera d’albergo che è anche un sepolcro, un studio televisivo, il set per il videoclip di una popstar, una scenografia caravaggesca e un interno notturno di Hopper.
Sul palco, una fenomenale Anna Della Rosa incarna Cleopatra dimenticando sé stessa, recitando per più di un’ora in un lombardo impeccabile, cavernoso e splendidamente cacofonico. Tanto che arriva un momento in cui, tra i lamenti e le facezie del personaggio, l’attrice perisce per lasciare il posto alla regina stessa: c’è un superbo faraone, sul palco, e piange il suo amato Antonio (il suo Tugnàs), e poi celebra una sessuomania libera e spregiudicata come farebbe un ubriaco al bancone di un bar di Como che celebra la sua virilità indefessa, sempre zelante. E poi ci spiega cos’è l’Amore, quello che travalica qualunque altra questione, quello che sconvolge e annienta le persone che hanno l’audacia di abbandonarsi ad esso. Una messinscena riuscita, insomma, che coinvolge e sconvolge gli astanti attraverso la recitazione ma anche per via di tutto l’apparato estetico che la sorregge: il progetto di Gup Alcaro, le scene e le luci di Nicolas Bovey, il costume di Gianluca Sbicca, la cura del movimento di Marco Angelilli.
Davide Maria Azzarello