“Chi ha ucciso mio padre” alla Triennale di Milano, un monologo dalla Francia su omofobia e lotta di classe
“È normale vergognarsi di amare?”
È andato in scena alla Triennale di Milano lo spettacolo “Chi ha ucciso mio padre” di Daria Deflorian e Antonio Tagliarini, tratto dall’ultimo racconto autobiografico di Édouard Louis pubblicato nel 2018, uno degli ultimi fenomeni della letteratura francese. Si tratta non soltanto di un’opera contro l’omofobia e il machismo, ma anche di un manifesto della lotta di classe.
Lo spettacolo è un monologo in cui il protagonista racconta il proprio travagliato rapporto con il padre: i due non sono mai riusciti a comunicare poiché il figlio è omosessuale e il padre un omofobo ossessionato dalla virilità. Sin dall’infanzia il narratore ha dovuto scontrarsi con il machismo imperante nella sua famiglia, raccontato attraverso una serie di episodi. Gli omosessuali sono perseguitati come gli indiani d’America, per tale motivo il personaggio indossa un copricapo da capo indiano. L’opera è molto più di una denuncia contro l’omofobia: l’autore critica aspramente la politica francese degli ultimi decenni in quanto ha ridotto i sussidi per coloro che non possono lavorare, citando governi e presidenti coinvolti con accurata precisione e descrive il misero stile di vita di una famiglia monoreddito francese, in cui il capofamiglia è un operaio. Il padre del protagonista, provato dal lavoro in fabbrica, è infatti destinato a una morte prematura, così diventa il simbolo del ceto sociale più fragile della Francia, di tutti coloro che sono stati costretti a lavorare nonostante la malattia. Il narratore racconta di essersi ricongiunto con il padre poco prima della sua morte, offrendo allo spettatore un barlume di speranza: affermando che i figli cambiano i genitori, racconta come i giovani omosessuali rinnegati dalla famiglia possano sempre sperare in una riappacificazione.
L’unica scenografia è costituita da sacchi della spazzatura neri, ammucchiati un angolo del palcoscenico. Il protagonista li prende a calci con rabbia sfogando la propria frustrazione e, a ogni colpo, risuona un’eco profonda, realizzata dal responsabile dei suoni Emanuele Pontecorvo. I sacchi dell’immondizia vengono anche sventrati, disseminando così sul palco gli oggetti più vari. Alcuni di essi sono vestiti, i costumi di scena scelti da Metella Raboni. Dal soffitto del palco pendono alcune lampade che si accendono o spengono a scatti, Giulia Pastore ha saputo creare un sapiente gioco di Luce. L’attore è Francesco Alberici, che parla lentamente con voce ferma ma estremamente espressiva. Per movimentare la sua interpretazione compie i gesti più vari: sposta i sacchi dell’immondizia, li rompe, raccoglie gli oggetti in essi contenuti, si veste, si sveste, si aggira per il palco come se stesse compiendo delle azioni importanti, ma di fatto non sta facendo assolutamente nulla, ingannando lo spettatore. La sua interpretazione vuole andare oltre gli stereotipi sull’omosessualità, infatti nulla degli atteggiamenti o del comportamento del personaggio ne suggerisce l’orientamento sessuale: possiamo semplicemente intuire che si tratta di un membro della comunità LGBT dai suoi racconti. A un’attenta analisi emerge che l’argomento dello spettacolo non è l’amore tra uomini, bensì la mascolinità, cui ogni maschio francese sarebbe tenuto ad aderire secondo la mentalità del padre.
Il testo del monologo ricorda Lettera al padre di Franz Kafka, un’opera postuma autobiografica in cui lo scrittore accusa il genitore di avergli provocato dei traumi con una rigida educazione. Anche in questo caso l’opera è narrata in prima persona e il rapporto padre-figlio appare incrinato da incomunicabilità e da una serie di colpe da parte del genitore. Non sappiamo se le parole del protagonista del monologo arriveranno al padre o se non giungeranno mai al destinatario come l’opera di Kafka, ciò che è certo è che, alla fine della propria vita, l’anziano operaio accetterà l’omosessualità del figlio. Un’opera dal testo semplice e di immediata comprensione, ma dal significato forte e indelebile. La Triennale ha saputo riprendersi a testa alta dall’emergenza Covid proponendo uno spettacolo di qualità, che offre anche l’occasione per celebrare la giornata del 17 maggio e l’imminente mese del Gay Pride.
Valeria Vite