Cesare Pavese e Silvia Costa in una performance estetica sulla mortalità
Tra il 1945 e il 1947, pochi anni prima di morire, lo scrittore langarolo Cesare Pavese aveva creato i Dialoghi con Leucò, ventisette brevi discorsi che riesumano la mitologia greco-romana per proporre un’analisi esistenziale degli archetipi che precedono la natura umana. Un’opera pregna di riflessioni che indagano le categorie ontologiche dalle quali emergono ancora oggi le nostre opinioni e i nostri comportamenti. Una raccolta che esplora il mito come unico e insostituibile costituente del sostrato socioculturale che accomuna tutti noi.
Silvia Costa, regista trevigiana classe 1984 ampiamente riconosciuta – forse anche per il suo sodalizio con il celebre Romeo Castellucci – è partita da una piccola selezione dei dialoghi per ricreare un’interessante versione teatrale e performativa dei contenuti pavesiani. Sul palco, con la regista, recitano Laura Dondoli e My Prim. Lo spettacolo della Costa, che s’intitola “Nel paese dell’inverno“, è una trasposizione che si rivela, sin da subito, in tutto il suo potenziale d’incanto: un’azione estremamente ponderata che si diffonde sugli spalti come un tableau vivant in cui la partitura fisica conta più della parola stessa. Le conversazioni ci sono, certo, e richiamano inevitabilmente un messaggio che Pavese voleva lasciare sulla carta: l’uomo non percepisce il valore della mortalità, anzi la teme e tenta di rifuggirla grazie a espedienti più o meno efficaci. Però la performance della Costa si impone sulle menti degli astanti attraverso le pose, i cenni, i portamenti. E infatti i movimenti rimangono importanti per l’intera durata dell’azione. Le parole, invece, talvolta, evaporano prima di potersi invischiare alla corteccia cerebrale del pubblico. Non che ci sia qualcosa di male in questo: in un’epoca in cui i discorsi non finiscono mai, la formula del quadro vivente rimane molto più impressa negli occhi degli spettatori; i flussi di parole – per quanto ben strutturati e ottimamente curati – non offrono una visione chiara di un testo già di per sé abbastanza criptico. Però è anche probabile che questa sia un’accezione voluta, ricercata. Non si sa. Sicuramente, poi, bisogna elogiare tutto il magistrale impianto scenografico della stessa Costa, che ha saputo plasmare un delicato ma risonante microcosmo architettonico di bianchi pannelli mobili che si uniscono per costituire un’indefinita città ideale al contempo antica e rinascimentale, classica ma forse persino razionalista. Una vera e propria opera d’arte che potrebbe anche funzionare da sola per via della sua vibrante energia immaginifica. Altrettanto lodevoli i costumi scelti da Laura Dondoli: protesi simboliche che si muovono sulle stesse frequenze della scenografia e che quindi celebrano l’atemporalità delle gesta raccontate. È doveroso, infine, citare lo splendore delle sculture di scena ideate dalla designer Paola Villani. Insomma, Nel paese dell’inverno è un’occasione teatrale e artistica di indubbio valore estetico: il pubblico assiste a un rito statuario (ma non statico) che oscilla di quel veemente ardore apocalittico nato in un tempo immemore e riformulato da Pavese come l’intercapedine esistenziale tra la mortalità e l’eternità. E fin qui tutto bene. Ma i contenuti? Quelli ci sono, chiaramente, però non si evolvono dall’impronta dell’autore, non elaborano delle risposte alle domande con cui ci avevano lasciato i Dialoghi con Leucò. La prospettiva dalla quale Silvia Costa affronta la sua creazione è quella di chi vuole riproporre figurativamente il modello d’ispirazione senza però problematizzarlo o riprogettarlo. Ovviamente, però, ripensando alla visione di Pavese – che poneva il logos al centro di tutto -, occorre specificare che la (voluta?) vacuità dialogica cui si accennava sopra non può essere intesa come una rielaborazione del testo originale, ma semplicemente come una lecita inflessione formale in cui la regia è rimasta impigliata. E poi, forse, la mancata problematizzazione del testo originale consente anche a chi non lo ha mai letto di apprezzare il risultato finale, percepire la bellezza dell’apparato performativo e sfiorare l’essenza del messaggio di Pavese. E in questo senso, pertanto, possiamo permetterci di affermare che “Nel paese dell’inverno” sia un evento teatrale riuscito, approdato là dove si può pensare che volesse approdare.
Lo spettacolo, inserito nell’intelligente programmazione del Festival delle Colline Torinesi, è stato ospitato martedì 18 e mercoledì 19 giugno alla Lavanderia a vapore di Collegno, location sempre molto suggestiva e in questo caso più che azzeccata.
Davide Maria Azzarello