“Cenere in bocca”, l’amarezza che ci portiamo dentro
Brenda Navarro è una scrittrice messicana. Ha studiato Sociologia ed Economia Femminista e ha conseguito un Master in Studi di genere all’Università di Barcellona. È autrice di due romanzi oltre che di racconti, saggi e poesia e ha lavorato per diverse ONG per i diritti umani. “Case vuote”, il suo primo romanzo, ha ricevuto il Premio Tigre Juan, l’English Pen Translation Award ed è stato tradotto in diverse lingue. “Cenere in bocca” (La Nuova Frontiera, 2023, traduzione di Gina Maneri, pp. 192, Euro 17,90) è il suo nuovo romanzo.
“Io non l’ho visto, ma è come se l’avessi visto, perché la scena continua a trapanarmi il cervello e non mi lascia dormire. Sempre la stessa immagine: Diego che cade e il rumore del suo corpo sul marciapiede. (…) risento di continuo il rumore nella testa, come un tonfo, come un vetro che va in mille pezzi e si conficca di colpo in un sacco di sabbia, all’improvviso, senza avvisare. (…) Diego che ha voluto essere fragore, che ha voluto interrompere la musica del suo corpo. Diego che ci ha lasciato così, con lui sospeso fra noi.”
Sei secondi, un corpo che si schianta al suolo: è l’immagine che apre il romanzo e che la protagonista, voce narrante senza nome, non riesce a togliersi dalla testa da quando suo fratello Diego si è lanciato dal quinto piano. Un’immagine che si fa pretesto per guardarsi indietro e raccontare la propria storia, fatta di molti vetri che vanno in pezzi, di molti pezzi che si conficcano in un sacco di sabbia, di ferite che siccome non si vedono sono meno ferite di altre.
Un libro di suoni, di musica, quella che ascolta Diego, onomatopee che raccontano un dolore, brontolii della pancia che dicono di ansie e difficoltà. Soliloqui, riflessioni, amarezze che ci trasportano tra Messico, Madrid e Barcellona. Vite che si arrampicano in cerca d’aria: la madre che lascia Città del Messico alla ricerca di fortuna e libertà, costretta però a stare lontana dai figli per potersi affermare come individuo. Diego e la sorella che crescono coi nonni e poi raggiungono la madre in Spagna, ma solo fisicamente, perché affettivamente ormai c’è un abisso. E infine il ritorno, in un Messico molto diverso e più violento rispetto al paese che la protagonista ricordava. Violenza in famiglia, violenza fuori: sparizioni, impiccagioni, regolamenti di conti tra narcos. Storie di lotta di chi emigra, storia di un femminismo che cerca di organizzarsi per emergere e far valere diritti. Ma alla fine cosa resta? Cenere in bocca, che è quella di un corpo che non c’è più, che è amarezza per tutto quello che non è e forse non sarà mai, o magari sì ma a quale prezzo? Dopo quali stenti?
“L’Europa mi sembrava noiosa e vecchia e sola. Tutti quegli europei insieme, che viaggiavano, compravano, ci dicevano cosa fare e come farlo, erano tutti vecchi dentro e fuori, e soli, completamente soli.”
La protagonista e il fratello Diego non riescono a sentire la Spagna come casa, ma solo come abbandono, come assenza di qualcuno che si prenda cura della loro solitudine. Manca il senso di comunità nel sapersi tutti disgraziati allo stesso modo, ma comunque appassionati, perché per sopravvivere, alla fame, alla stanchezza, ce ne vuole tanta di passione. Non si balla più, non c’è più un posto dove mettere la musica, dove mangiare un pasto caldo, una casa dei nonni a cui tornare. Una volta di troppo ci si sente nessuno, “bacchette di legno tenute insieme con la colla e sul punto di cadere”.
“Una volta che capisci qual è il tuo posto nel mondo, il mal di stomaco che mi veniva nei momenti di forte stress diventa costante. Vivere per sempre con quel brontolio in pancia, perché l’angoscia di vivere ti paralizza. Perché al passato si sopravvive, ma al futuro? Cosa fai senza futuro?”
La protagonista e Diego, ma in fondo tutte le figure che animano il romanzo, si trovano a fare i conti col fatto che non esistono verità, ma solo punti di vista, che c’è un grande potere nel restare isolati, “essere un’isola che sopravvive nonostante le ondate di idioti che vivono tutt’attorno”. Ma è un potere che bisogna saper gestire. E quel punto di vista, quell’isolamento ognuno ha una forza diversa per affrontarli: chi li aggredisce come la madre della protagonista e di Diego che rompe gli schemi sempre uguali di famiglia e Paese; chi si trascina da una situazione all’altra come la protagonista; e chi si lascia cadere nel vuoto come Diego, per farci i conti una volta per tutte con quel vuoto.
In un romanzo così piccolo, la Navarro porta l’attenzione su molti temi che in una catena senza fine si tirano l’uno con l’altro. L’importanza di dire, scrivere frasi potenti e scomode, creare immagini potenti e scomode per alzare una voce, che all’inizio è una ma può diventare un coro. E qui ci sono immagini forti che sono un messaggio politico, sociale. È potente l’immagine di mangiare cenere. È potente il fatto che la voce narrante non abbia un nome: è lei, ma potrebbe essere chiunque. Questo anche rende il romanzo così di impatto e corale. Il racconto di una situazione che ci riguarda tutti, se non oggi, forse domani. E, anche se indirettamente, dovrebbe riguardarci sempre che i diritti sono di tutti, sempre. E in mezzo a questo caos, come ci si prende cura dei sogni che abbiamo?
“Cosa succede ai sogni rimandati, a quelli che non arrivano perché c’è un incubo che ti occupa il cervello e non ti lascia dormire? Vanno a male, marciscono? Magari restano dentro, nello stomaco, come un peso indigesto. Oppure esplodono e sono i brontolii che fa la pancia nel cuore della notte. (…) Cosa succede ai sogni che non esistono? Si buttano dalla finestra.”
Laura Franchi