Cafè Müller in presenza: Zibetti propone Dante
Sabato 8 maggio, data unica, 20.30 per rispettare il coprifuoco. Un altro teatro torinese che ha riaperto i battenti è il Cafè Müller: dopo mesi e mesi di strenuo lavoro digitale (tutta la loro programmazione è in streaming su Nice Platform) Paolo Stratta e Caterina Mochi Sismondi hanno potuto proporre al pubblico uno spettacolo vero, di corpi, di biglietteria, di foyer, di applausi. Per questa re-inaugurazione, il fortunato iniziatore è stato l’affascinante Roberto Zibetti, che alcuni di noi ricorderanno per aver recitato con Liv Tyler in Stealing Beauty, il quintultimo film di Bernardo Bertolucci. In realtà, però, Zibetti nasce ed evolve in teatro, e a più riprese si presta al grande schermo (per Argento, Giordana, Ferrara), ma appunto la sua formazione avviene con Ronconi, poi Strehler, e affini.
Durante la residenza al Cafè Müller, Zibetti ha preparato una messinscena esplicativa e celebrativa di Dante Alighieri, in occasione dei settecento anni dalla morte. Lo spettacolo, piacevolissimo, giace interamente sul primo canto dell’Inferno, quello che tutti quanti abbiamo letto almeno una volta, anche solo al liceo: a trentacinque anni, Durante si ritrova in quell’arcinota selva oscura che poi è il peccato, la perdizione, l’ozio; vede varie belve allegoriche, poi Virgilio…
Zibetti gioca con le terzine incatenate, le sviscera per raccontarle, interpretarle e, soprattutto, per attualizzarle in una semiseria resa orale di carattere fluente e, perchè no?, avvincente. Geniale l’attacco con la traduzione di Luigi Riccardo Piovano, che mantenne la rima incatenata nonostante il vernacolo piemontese (Dla nòstra vita li quasi a metà / i son trovame an na valada scura / perchè j’era spërdume për la stra /…), che un po’ destabilizza se si pensa alla questione linguistica della commedia, che in parte sancisce in via ufficiale la nascita del nostro idioma unitariamente inteso. Ma d’altronde Zibetti è cresciuto a Torino in una famiglia di piemontesi, e quasi a voler spiegare l’universalità dantesca (quell’abbraccio filologico del sommo poeta) ce lo racconta nella sua lingua d’origine e di formazione. Il monologo si sviluppa quindi come una lezione: il pubblico ascolta un intervento letterario ma anche un compendio drammaturgico, musicale, culturale. Zibetti getta nel calderone tutta una serie di riferimenti contemporanei, sui generis ma poi azzeccatissimi, che proteggono il testo e lo esaltano in un’aura divertita, divertente e suggestiva, la quale un po’ ricorda quella definizione di classicità letteraria proposta da Calvino: un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire. E infatti sul palco arrivano Vasco, il cardinale Becciu imitato da Maurizio Crozza, la Carrà, Califano, la Paramount, le Lezioni Americane e così via, in un turbine gradevolmente conturbante di interpretazioni le quali eclissano del tutto il lavoro televisivo di Benigni, che in confronto appare semplicistico. Zibetti è esauriente, meditato, minuzioso, tanto che (purtroppo) ha appena il tempo di dipanare il primo canto, lasciando però gli spettatori con il desiderio forse inesaudibile di nuove puntate che analizzino anche tutto il resto, da Pier Delle Vigne a Cangrande Della Scala.
Davide Maria Azzarello
Fotografia di Andrea Macchia