“Bros” di Romeo Castellucci, o del mettere-in-moto
Lo scorso venerdì 4 novembre uno spettacolo al di fuori della nozione ordinaria del termine ha dato inizio, nella cornice del teatro Sanbàpolis, alla stagione regionale contemporanea organizzata dal Centro servizi culturali S. Chiara di Trento e dal Teatro stabile di Bolzano in collaborazione con il Coordinamento teatrale trentino; Bros di Romeo Castellucci, infatti, trasforma la sala in un microcosmo estetico nel quale il rigido controllo dei sensi mette sistematicamente a nudo la vulnerabilità dell’essere umano, sia nel corpo sia nella coscienza.
Trattandosi di un’operazione spettacolare dotata di un proprio statuto – distribuito all’ingresso sotto forma di un enigmatico “indice comportamentale consegnato a ignari partecipanti” – converrà delineare cosa accade, il fatto teatrale in sé; seguirà uno sguardo, inevitabilmente condizionato dal punto di vista (nel nostro caso, da una posizione centrale in seconda fila, pienamente esposta al frastuono visivo, uditivo e olfattivo), in merito a ciò che tale fatto può scatenare nello spettatore una volta svanito il perimetro di luce che separa la scena dal mondo reale, il mistero solenne dall’esistenza quotidiana.
È una foresta di corpi in divisa da poliziotto quella che copre il palco, una folla quasi indistinguibile: sono in larga parte “uomini dalla strada”, cittadini comuni selezionati dalla compagnia Socìetas e che hanno stretto un patto di vigile obbedienza. Un’imperscrutabile cabina di regia semina comandi individuali, ciascuno di essi raggiunge il suo destinatario per via auricolare e viene immediatamente eseguito; neanche una sillaba esce dalle labbra degli agenti, che si schierano come fibre di uno stesso muscolo attraversato da violente contrazioni; manganelli, grilletti, fiamme, ombre, torture, evocazioni (dalla Deposizione di Raffaello alla Lezione di anatomia di Rembrandt, dalla Flagellazione di Caravaggio alla Fucilazione goyesca mentre la Zattera della Medusa di Géricault emerge e scompare tra i flutti), plotoni, radure, stendardi. A sottolineare questo muto intrecciarsi di corpi spalancati concorrono la musica curata da Scott Gibbons e l’odore dell’incenso e dei petardi.
E il pubblico? Dapprima frammentato e mormorante, il pubblico diventa infine un’identità speculare a quella sul palco: mentre i poliziotti ricevono ordini in cuffia, gli spettatori non possono fare a meno di interrogarsi; i primi si muovono su un baratro che non ammette possibilità di scelta, ai secondi la decisione di quale significato attribuire è incessantemente sospesa sopra le teste. Assistono, nella duplice valenza di “guardare” e di “coadiuvare”, alla fabbricazione di un evanescente riflesso della società umana, da cui non scaturisce una facile morale bensì interrogativi, dubbi, soluzioni. Un assistere immobile, certo, ma che si traduce in un mettere-in-moto il pensiero e la coscienza.
Pier Paolo Chini
Fotografia di Luca Del Pia