BLOOD AND CIGARETTES, “THE NIGHT WRITER” DI JAN FABRE
Più che di coscienza, quello cui assistiamo in “The Night Writer – Giornale notturno”, andato in scena al Teatro Astra di Torino dall’11 al 14 aprile, è un flusso inarrestabile di appetiti viscerali, di pulsioni che rivaleggiano per fecondare l’immaginazione, sopravvivendo alle barriere poste dalla biologia e dal linguaggio. Da molti anni Jan Fabre preleva ciò che scorre nelle sue vene adoperando come siringa una penna Bic blu; da lungo tempo, inoltre, il fumo di sigaretta è scala a chiocciola dove i pensieri notturni incontrano e contaminano ciò che ha preso forma nelle ore del giorno.
Pagine di diario intimo, note a margine del quotidiano sforzo creativo, insieme a brani tratti da La reincarnazione di Dio, L’Angelo della Morte, Io sono un errore, L’imperatore della perdita, Il Re del plagio, Corpo, servo delle mie brame, dimmi…, Io sono sangue, Drugs kept me alive. Fluttua, nel testo (drammaturgia di Miet Martens e Sigrid Bousset; traduzione di Franco Paris), la spirale di un discorso che trova nella febbre, nel sesso e nell’arte i momenti di un ambiguo processo alchemico: bruciando “più violentemente di quanto concesso e previsto” l’Io si dissolve, e dissolvendo si assolve. La trasmutazione di questo (vile?) metallo in luce è affidata a Lino Musella, formidabile nel dare vita sulla scena ad un autoritratto che va oltre Fabre stesso. Da solo, nel perimetro di una teca immaginaria cosparsa di sale, siede a un tavolo di vetro. Parole, fiammiferi, bicchieri, fogli, pietre, sigarette, video. Il respiro è tagliente, lo sguardo piretico, i riflessi moltiplicati e inquieti sul fondale.
È un labirinto disseminato di cose visibili e invisibili, di simboli, di invocazioni che talvolta durano il tempo di un solo gesto, come quando il performer si attorciglia i capelli a forma di corna: il riferimento alla serie di Autoritratti in bronzo, in cui il volto dell’artista belga è in continua metamorfosi tra uomo e animale, svanisce furiosamente sotto i nostri occhi. C’è invenzione, c’è crudeltà nel senso teatrale predicato da Artaud, la rappresentazione è spazzata via e con essa il sigillo di un mondo autentico che vuole diventare, e diventando vuole. Nello spettacolo avviene dunque una eclissi, anche se piuttosto morbida (è uno svantaggio della lingua italiana, tanto intrisa di sole), tra due corpi metaforici: l’uno, l’uomo come “legno storto” – e proprio da questa deformazione scaturisce il suo essere imprevedibile e vitale – l’altro, l’angelo che lo osserva da vicino, arrivando a sovrapporsi a lui. Una nuova fede, un nuovo fuoco per dare all’uomo ciò che ha smarrito: Fabre/Musella non abbassa la guardia, continua a spingersi al limite, e da quel limite sporgersi.
Da qualsiasi traiettoria la si attraversi, l’opera di Jan Fabre dentro e fuori dal teatro porta allo sguardo una lama di luce, in cui l’esistenza è sospesa come granelli di polvere. Rendere visibile il pulviscolo di un’epoca complessa come quella contemporanea, non è certo da tutti.
Pier Paolo Chini