Bizet torna al Regio con la “Carmen” di Medcalf
L’autunno del Teatro Regio di Torino si sta concludendo splendidamente. In questi giorni, infatti, va in scena la riuscitissima “Carmen” di Stephen Medcalf, creata nel 2005 per il Teatro Lirico di Cagliari. Un’opera celebre, di sicuro la più nota del repertorio di Georges Bizet, che la compose nell’estate del 1874 mentre alloggiava a Bougival, nell’Île-de-France. Una tragedia discontinua, dove talvolta il dolore cede il passo ad una comicità irriverente, a tratti triviale ma anche brillante, e sanguigna quanto basta. Un dramma che sconvolse Sigmund Freud tanto da ispirargli la tesi de Il disagio della civiltà, e che dieci anni dopo ammaliò niente meno che Friedrich Nietzsche, il quale nel 1888 la rivide per ben venti volte al Carignano durante il suo soggiorno a Torino. Due spettatori eccellenti, scrive Simona Argentieri nel libretto stampato dal Regio per l’occasione. Davanti alla Carmen Nietzsche si esalta e Freud si deprime; entrambi però colgono nel vivo delle loro reazioni emotive la qualità sensuale e corporea della vicenda, i suoi amori turbolenti e fatali. E ancora oggi va così: anche le menti più emancipate, se si confrontano con Carmen, si ritrovano un barlume di trascendenza impigliato nel cervello, uno squarcio nel velo del reale sul quale rimuginare. Carmen rapisce il pensiero, scardina le certezze borghesi, erotizza persino la morte, riscatta e celebra le deuxième sexe e s’insidia con astuzia nella mente di quei maschi che rimuovono la loro femminilità tanto da farli dubitare di loro stessi. E per non farsi mancare nulla Carmen diventa anche pop: d’altronde, chi non ha mai sentito almeno una volta l’ouverture o l’habanera dell’oiseau rebelle?
E la Carmen di Medcalf è tutto questo e anche di più. Audace, professionale, sicuro della sua esperienza pluridecennale, vagamente visionario, il regista inglese ha colto quel che c’era da cogliere del capolavoro di Bizet e lo ha restituito al pubblico. Il fatum cinico, innocente, crudele (come scrisse Nietzsche) tra la sigaraia gitana e Don José colpisce gli astanti costringendoli a riflettere sul valore della libertà in un mondo maschilista, dove tutti diventano vittime perché in realtà nessuno può aderire perfettamente ad un ruolo plasmato da altri e per altri. La trama della novella di Prosper Mérimée, qui mediata dal libretto di Henri Meilhac e Ludovic Halévy, rivive attraverso le intelligenti intuizioni di una regia piuttosto sorprendente: una fra tutte, la scelta di ambientare l’atroce finale dietro le mura scenografiche di una Siviglia a-cronologica. Geniali le scene di Jamie Vartan, che si è occupato anche dei costumi. Sia gli interni sia gli esterni altro non sono che la reiterazione di un’idea di Spagna caliginosa, opprimente, dove la canicola non finisce mai, neanche con l’arrivo delle tenebre, tanto che tutto sembra scorticato, dalle pareti dei palazzi alle vesti delle sigaraie (che peraltro, a dispetto del nero indicato da Merimée, vestono un bianco polveroso ma azzeccato). Si rivelano dunque opportune, in questo senso, anche le fervide luci roventi di Simon Corder. Musicalmente, nulla da eccepire: il giovane Giacomo Sagripanti, per la prima volta alla guida dell’orchestra del Regio, dirige in maniera misurata, senza lasciarsi prendere dagli eccessi, rivelandosi preciso, composto, all’altezza del ruolo. Il cast è omogeneo, ben assortito, tanto che emerge più l’insieme che il singolo: Andrea Carè (Don José), Marta Torbidoni (Micaëla), Lucas Meachem (Escamillo). Scrosciano poi gli applausi per l’armena Varduhi Abrahamyan, che però forse ha interpretato Carmen avvolgendola con troppi orpelli, troppi virtuosismi vocali, mediati comunque da un’impeccabile dizione. Lodevole, come sempre, il coro diretto da Andrea Secchi e le voci bianche guidate da Claudio Fenoglio. Nel complesso, insomma, questa versione della Carmen si riafferma in tutta la sua calcolata impeccabilità.
La prima, svoltasi martedì 10 dicembre, è andata avanti senza intoppi, anche in una Piazza Castello impraticabile per via del banco di splendide sardine che manifestavano tra Palazzo Madama e il Palazzo della Regione. Il teatro era quasi pieno, anche se va detto che con l’incedere degli atti qualche poltrona ha perso il suo spettatore. Certo, c’è una ragione concreta dietro queste fughe: s’inizia alle 20 e si finisce a mezzanotte. Mezzanotte e un quarto se ci si ferma ad applaudire. Ingiustificabili, in questo senso, le tre pause, soprattutto se si pensa che i cambi di scena sono davvero minimi, poiché in questo modo tutto diventa più annacquato, più complesso da seguire. Ma comunque le repliche, undici in tutto, andranno avanti fino a sabato 21, e dunque c’è ancora tempo per ottenere un biglietto per un allestimento che, quanto a contenuti ed estetica, non può che convincere.
Davide Maria Azzarello