“Bisesto – Sette canzoni per la Morte” di Andrea Vismara
“Sono io la Morte, e porto corona. Io son di
tutti voi signora e padrona.
E davanti alla mia falce il capo tu dovrai chinare. E con
l’oscura Morte al passo andare.” Ballo in FA#, Angelo Branduardi
Toni sommessi, narrazione in prima persona, quasi come in un racconto cinematografico, immagini soffuse, toni ovattati che portano inevitabilmente a uno stile gotico che, sapientemente, la penna di Andrea Vismara descrive nel suo “Bisesto – sette canzoni per la Morte” (Edizioni Spartaco, collana DISSENSI, pp. 256, euro 13).
È la Morte, la protagonista indiscussa, infida e bellissima, che – dopo aver passato una notte bollente con Flavio Tosetto, alias Kidda – gli comunica che la vita per lui, sta per giungere al game over. Il Carnevale è il suo GONG, è l’ultima data per la sua salvezza. Kidda, attempato ex musicista, auto-ironico – e decisamente fuori di testa – a questo punto si gioca il tutto e per tutto, iniziando il suo folle peregrinare attraverso i cimiteri di Roma, Venezia, Genova, Milano e Firenze, per incontrare defunti illustri come Trilussa, Manzoni, Basaglia, Toscanini, Collodi, Faber, che a loro volta lo farciscono di consigli, per sconfiggere la Morte attraverso la ricerca della Verità, della sua Verità.
“Sappiamo sempre chi siamo, sempre: il segreto per non perdere il contatto con noi stessi sta nel riuscire ad ammettere e accettare quelle parti di noi che vorremmo nascondere e dimenticare.”
Kidda, cerca di rendere realtà il suo vecchio sogno, cioè quello di riformare il suo gruppo rock: la CARCASSA DANSANT: riunisce quindi tutti i componenti per inseguire quel successo, soffiatogli da sotto al naso, trent’anni prima.
Andrea Vismara è ironico in modo feroce nelle descrizioni dei personaggi, facendo trapelare contestualmente una sorta di malinconia malata, tipica di chi porta sul capo la spada di Damocle, che crede sia esageratamente presto per deporre le sue armi, ma che, allo stesso tempo, sa che a nulla varranno le sue proteste.
Il lettore stesso è beffato dall’apparente illogicità dei racconti di Kidda, poiché sembrano, davvero il frutto del delirio provocato dal peyote con tutti gli effetti devastanti che produce.
“Credi in Dio?”
“E tu?”
“Se credessi in Dio, crederei che la vita ci promette un celestiale dessert dopo un orribile pasto.”
È proprio questa la sua glaciale modernità, nell’aver interpretato perfettamente l’essenza: l’uomo e la metafora della vita, rappresentata dal pasto che siamo costretti a mangiare, seduti uno accanto all’altro, quasi come ospiti di un grigio e rigido collegio. “Essere non visto è un gioco pieno di fascino e mistero e, quando il velo umido si stende sulla città, percorrerne il dedalo è un rituale, un peregrinare pressoché cieco, ma il nulla è sempre stracolmo di cose bellissime se si ha la pazienza e l’attenzione per coglierle.”
Siamo uomini, con tutto ciò che questo termine può racchiudere, fragili esseri, in balia di emozioni, senza la possibilità di poter uscire da un cul de sac in cui siamo stati deposti dalla nascita, e allora trascorriamo i giorni in attesa di poter vedere sul viso delle persone a noi vicine, quel sorriso amaro e breve che poi fa posto alle lacrime, è quello il momento in cui realizziamo di essere difronte al nostro GAME OVER.
Marisa Padula