BIOPOLITICA DEL CYBORG. IL FEMMINISMO PERFORMATIVO DELLE AJARIOT
Ahi che la parola tagliata in pezzi, a uso e consumo di chi abita l’ossessione della propria immagine e somiglianza, non lascia fiato! In un altrove popolato di soli uomini, in uno spazio-tempo distopico che non ha nulla dell’alterità, la tecnologia surroga le donne con sofisticati organismi in grado di concretizzare immediatamente la metafora del servilismo attraverso cui il potere concepito in ottica maschile osserva e interpreta il femminile: appagare gli appetiti sessuali e dare prosecuzione alla genìa mediante il concepimento di feti (esclusivamente targati cromosoma Y). L’obiettivo patriarcale è raggiunto. Inoltre, a precise scadenze, interviene un meccanismo di controllo: da un lato, raccolta dati per la messa a punto di nuovi modelli, dall’altro tabula rasa perché i ricordi non compromettano l’efficenza del dispositivo.
È questo l’antefatto di “D.A.K.I.N.I.” del collettivo di arti performative AjaRiot, che ha debuttato al Cubo Teatro di Torino sabato 30 marzo.
Sospeso “come il destino tra la mano e il fiore”, un biocyborg di ultima generazione interrompe le cerniere grazie ad un
bug di sistema, iniziando così a cercare – e cercarsi – nel rumore al di fuori
dell’algoritmo. Ciò che, sulla scena, prende forma
attraverso Federica Guarragi, Isadora Pei (sua anche la firma alla
regia e visual art), Teresa Ruggeri e Camilla Soave non è più tabula rasa, né censura su ciò che esisteva
prima: un mondo vissuto, immaginato, trasformato nelle idee e nei corpi da
scrittrici, filosofe, scienziate, attiviste. Voci che danno forma a quelle “narrative politicamente motivate che manifestano e disinnescano i rapporti
di potere e sono un passo così importante del cyber femminismo”, scrive Donna Haraway nel
“Manifesto Cyborg” che è traccia e radice feconda tanto di questo lavoro quanto
di una corrente femminista che si interroga sul presente, dove
l’interconnessione di tecnologia e biopolitica è strutturale oltre che
tangibilmente vissuta.
La performance non può che rivelarsi, di
conseguenza, lo strumento narrativo più adatto e impattante. Sfruttando
l’efficacia evocativa della necessaria crossmedialità,
il collettivo AjaRiot costruisce
sulla drammaturgia di Emanuele Policante
una performance sfaccettata e suggestiva, grazie anche alla musica originale
composta da Carlo Valsesia. Nel suo
maturare dallo studio esposto nel corso di Cross Residence di Verbania, e
nell’attesa di mostrarsi, compiuto, sul palcoscenico di Cross Festival 2019 (a
Verbania il giugno prossimo), il progetto è arrivato a riconoscere l’utilità di
afferrarsi a un più saldo filo narrativo, in cui l’intelligibilità della
vicenda non è mai messa in discussione dalle scelte stilistiche, e ciascun
elemento concorre a incarnare il gesto – artistico perché politico e politico
perché artistico – che esprime la riflessione sul rapporto tra corpo e
intelligenza artificiale, tra patriarcato e femminismo, tra potere e coscienza
(sovversiva) di sé.
Il progressivo riconoscersi, il pulsare vitale contro il meccanismo imposto
dalla programmazione, il bug di sistema di cui il corpo ritrovato di “D.A.K.I.N.I.” si fa strumento: come
nel biocyborg, anche in noi qualcosa
non è più lo stesso, la pelle è cosparsa di voci e la memoria di ardenti
bagliori. Lo schema che assegna alla mente artificiale “uno scopo,
una abilità, un desiderio”2 è infranto; la nuova intelligenza sceglie un
nome, una identità per cui lottare, un piano per innescare la resistenza, per
trovare una voce che le permetta di esistere – “a woman disappears everytimes a man tells of her” – nel
giardino di una realtà chiamata a rinnovarsi, a trovare radici da seminare per
dar rigoglio a un giardino nuovo, che distrugga i muri dentro cui è costretto,
per farsi fiume, oceano, marea. Per superare, come moderne Ulissi dantesche,
quelle colonne d’Ercole oltre il quale il dio del patriarcato le vuole,
inghiottite dal turbo di quello che il potere racconta come eccesso
di orgoglio e che invece dà la forma alla libertà di essere e pensarsi e
ripensare la realtà. Un vento anabatico quello che soffia tra le righe della
performance, capace di portare in alto lo sguardo – dall’ombra al calore, dalla
linea alla curva – e insieme di richiamare altri e nuovi sguardi, per chiederci
“come vogliamo siano programmate le [nostre] intelligenze, in quale società vogliamo
vivere”3.
1 Dalla poesia “La
Tigre Assenza” di Cristina Campo.
2 Dall’avventura grafica “Grim Fandango”.
3 Da “Manifesto Cyborg” di Donna Haraway.
Palumbo/Chini
Foto di Francesco Galli