BENEBENNIU IN SA DOMO DE MACBETTU
Uno spettacolo a tinte foschissime, questa rivisitazione shakespeariana operata dal regista Alessandro Serra. Rivisitazione oltremodo eccellente, e che ben gli ha valso il premio UBU 2017 per il miglior spettacolo.
Oltremodo curioso che l’opera prescelta sia proprio quel Macbeth, che – stando a una delle più longeve superstizioni anglosassoni in ambito teatrale – porta con sé una fatale maledizione, per dirla in sardo “malasorte”, quel Macbeth il cui nome è impronunciabile durante la messa in scena, pena la trasformazione di uno spettacolo in fiasco. Sarà forse un caso che questo cupo sentore, tipico di ogni antica credenza legata a rituali sconosciuti, riecheggi in quest’ancestrale filigrana sarda in cui si dipana quest’opera geniale? È forse un caso che riguardi proprio quelle tre streghe, o parche di classica memoria, o kogas (perché no), che ridacchiano senza sosta viepiù che il delirio di Macbettu prende forma, e i cui girotondi si fanno sempre più vorticosi non appena si fa strada la follia e l’autodistruzione del destinatario delle loro profezie? Dopotutto, antiche credenze o meno, si può ben affermare a ragion veduta che alcuna sfortuna abbia colpito gli attori in questione – omaggio elisabettiano, tutti uomini – i quali portano egregiamente in scena un’ebbrezza di coralità, in una commistione di dialetto barbaricino, richiami animaleschi e gutturali, pelli e corna, murre giocate alla corte del re e bevute conviviali attorno a un tavolo che tanto richiama a uno spettatore sardo lo stazzo natio.
E la grandezza di questo spettacolo sta qui, nel fatto che la mimesi catartica non arriva solo al compaesano che ode il dialetto della sua terra e i suoni della sua infanzia trascorsa tra carnevali e ginepri, ma a chi di sardo non ci capisce nulla, a chi nemmeno immagina quanta imponenza e vigore e sacralità si nascondano dietro questa limba, e probabilmente sì, durante lo spettacolo legge i sovratitoli, ma ciò che arriva dritto al cuore non ha bisogno di troppe traduzioni.
I sassi uno dopo l’altro costruiscono un nuraghe di omicidi man mano che l’orologio della morte scandisce i suoi rintocchi: i campanacci mamoiadini, le tenebre della nera Barbagia, i vocalizzi ancestrali ebbri di pazza isteria, la stessa che Macbettu nel suo letterale belato permette che si impadronisca di lui, quasi che pronunciare il suo nome sia un’autoproclamazione, nel delirio di onnipotenza, o un memento mori, in ogni caso un avvertimento pastorale in tutti i sensi.
E (oltre che nelle tre fataliste fanciulle goliardiche) nell’algida, implacabile, superba Lady Macbettu – persino quando si spoglia letteralmente di quella sete di potere per lasciare il posto a una liberatoria morte, dopo gli orrori cui ha condotto – prende forma quel matriarcato sardo, quella jana che tutto sa e tutto insegna, travestita da Dea Madre distruttrice, cieca come la furia che impersona.
Lavoro pregiatissimo di tutti e otto gli attori e un plauso particolare a Marcellino Garau sulle pietre sonore di Pinuccio Sciola, senza le quali nulla sarebbe stato così adorabilmente inquietante.
Di nuovo in scena al Teatro Massimo di Cagliari a partire dal mese di giugno.
Giulia Langiu
Foto di Alessandro Serra