Beckett esacerbato con Jurij Ferrini: in scena sopravvive solo Vladimiro
Est-ce que j’ai dormi, pendant que les autres souffraient? Est-ce que je dors en ce moment? Demain, quand je croirai me réveiller, que dirai-je de cette journée? (En attendant Godot, S. Beckett 1952).
La sera di sabato 28 novembre è andato in onda il terzo appuntamento di Solo in teatro, la rassegna virtuale del Café Müller di Torino, che dopo Oricco e Morino ci ha proposto niente meno che Jurij Ferrini. Lo spettacolo s’intitola Vladimiro e, come tutti le altre rappresentazioni del cartellone, rimarrà acquistabile e visibile in streaming su Nice Platform. Il teatro à la carte: guardiamo quello che vogliamo quando vogliamo a prescindere dalla città in cui viviamo. Comodo, no?
Per capire questo Vladimiro bisogna partire evidentemente da Samuel Beckett e dal suo dramma più conosciuto: Aspettando Godot. Ferrini, che in passato ha già avuto almeno due occasioni per confrontarsi con il testo, qui immagina un ipotetico terzo atto in cui, per l’appunto, Vladimiro non trova più il suo Estragone, il compagno di noie che negli altri due atti aveva tanto discusso con lui, di tutto ma specialmente di nulla. Vladimiro è costretto a recitare da solo, e dunque porta e sopporta un fardello doppio: la sua parte di copione, più quella di Gogo. Dunque delira, per lo più; discute con sé stesso come uno schizofrenico, come un malato mentale affetto da un qualche disturbo della personalità multipla. Per la terza volta il testo di Beckett rivive in un angosciante monologo dove l’attore, che qui è anche regista, praticamente finisce per incarnare la solitudine stessa: questo terzo atto è una crudeltà, una violenza, un dramma; ma tutto questo dolore è necessario, è utile per capire come l’assurdo non abbia mai una vera fine: dietro l’angolo c’è sempre una prospettiva più grottesca per osservare la nostra condizione di esseri umani. Il testo rimane invariato, dunque, ma viene compresso, impastato, rimacinato e riamalgamato per essere contemporaneamente uguale e diverso da quello che abbiamo letto tutti al liceo: un unico grande soliloquio inerziale e piuttosto svagato ma poi a tratti anche molto consapevole, di quella consapevolezza che accomuna i matti e i poveracci. Non è il posto giusto… ho sbagliato teatro!; è così che s’inizia: Didi non trova Gogo, e quindi giustamente pensa di esser capitato nella pièce di un altro. Poi capisce, accetta che quella è la sua storia, quello il suo scenario… ma Gogo non si trova da nessuna parte. E allora dovrò recitarle io, Didi, le battute di Gogo. Sarò Gogo e sarò Didi. E dunque Vladimiro ci prova, s’impegna ma non riesce, incespica perché non può occuparsi da solo del lavoro di due personaggi. Piange, scappa… ma non si può uscire né dalla propria testa, né dalla propria vita. Però ci ritenta, e pare convincersi di aver ritrovato Gogo… ma sì, l’abbiamo ritrovato. Come sono contento. Come siamo contenti. E che facciamo, ora che siamo contenti? Be’, aspettiamo Godot. Ma allora non è cambiato nulla, di nuovo: anche in questo terzo atto sono qui, siamo qui, e continuiamo ad aspettare Godot, e per la terza volta lui non arriva, non arriverà. Che strazio. Vladimiro dubita di sé stesso: magari Gogo non è mai esistito… magari io non esisto. E allora tanto vale che ce ne andiamo lontano… ma sì, lasciamolo perdere questo Godot. Ignoriamolo! Ma ci punirebbe… Però io non ce la faccio più a continuare così. E allora dai, domani ci impicchiamo. Però domani.
Quando Ferrini guadagna il palco, nonostante la limitazione del medium computeristico, s’intuisce subito che di fronte si ha uno che sa davvero il fatto suo, un uomo che trasuda professionalità teatrale, anche se poi contemporaneamente (e menomale) non sembra uno che si prende troppo sul serio, anzi. Molto tranquillo, umile, eppure così capace. Bravo, soddisfacente, appagante. Convince poi perché ha scelto di essere il regista di sé stesso e quest’operazione sicuramente non facile gli è riuscita oggettivamente bene: il risultato rappresenta e combacia perfettamente con quello scollamento dalla realtà che alcuni di noi possono comprendere e che tutti, se ci impegniamo, possiamo percepire. Ferrini è riuscito a rendere ancora più inquietante la quintessenza della tragedia paradossale del secolo scorso, che per l’appunto nell’attesa di Godot vede l’inizio e la fine di quel che c’era da dire, l’alfa e l’omega: il teatro dell’assurdo diventa la confessione alienata di un disperato come siamo tutti noi, in coda all’ufficio postale, dal medico o in gastronomia. Con la sola differenza che questo disperato ha scelto di porsi delle domande scomode. Ora toccherebbe a noi.
Davide Maria Azzarello
Fotografia di Andrea Macchia