Antonio Palumbo e il nuovo singolo “Tutto qui” – L’intervista
Il cantautore Antonio Palumbo è tornato con il nuovo singolo “Tutto qui”, a un anno di distanza da “Thank you for dancing” che anticipò l’uscita del suo EP in lingua inglese “How fast we live”. Abbiamo fatto qualche domanda all’artista per saperne di più.
In “Tutto qui” nel ritornello canti “hai chiuso gli occhi solo per 10 minuti e sei diventato grande, quando è successo esattamente?”, si riferisce alla realizzazione che arriva nei momenti in cui si fa il bilancio della propria vita? Che il tempo è passato troppo in fretta?
Nel film del 2014 “Boyhood” di Richard Linklater (film girato nell’arco di 12 anni, per raccontare molto realisticamente la crescita del protagonista) a un certo punto Patricia Arquette, madre del ragazzo, si trova ad affrontare uno snodo importante della propria vita: suo figlio abbandona casa per andare al college. E questa cosa le arriva come una sorpresa: “ma come, ho vissuto tutta la vita in attesa di questo momento, e di tanti altri momenti considerati cruciali nell’esistenza di una persona, ed ecco che è arrivato in un attimo: è tutto qui? E dopo che succede?“ La scena in cui si realizza tutto questo mi è sempre rimasta dentro. È un po’ questo il sentimento dietro alla canzone: il tempo va così veloce che nemmeno ce ne accorgiamo, e dove vanno tutte le idee e i progetti che non abbiamo ancora realizzato?
Ho letto che “Tutto qui” l’hai scritta un po’ di tempo fa, ma volutamente non è stata inclusa nell’EP in inglese uscito lo scorso ottobre; ho letto che, a differenza dei cinque brani di “How fast we live” che riguardano il passato, “Tutto qui” si focalizza sul presente. Trovo curioso però che il titolo “How fast we live” sia una constatazione sul presente, puoi illustrarci meglio questa diversità?
Le canzoni dell’EP parlano del passato, del mio passato, sono nate negli ultimi 5-6 anni, sono state suonate dal vivo, hanno avuto diverse forme fino a che non ci ho lavorato con il produttore Davide Andreoni. “Tutto qui” invece è nata un paio di settimane prima di entrare in studio, l’ambito in cui si discosta dalle altre canzoni è puramente personale. È un po’ come se con questo brano – che guarda caso è anche in una lingua diversa rispetto a quella usata fino ad ora – avessi inconsciamente intrapreso un percorso nuovo, ed è per questo che ho deciso di farlo uscire in un secondo momento. In questo senso c’è un filo rosso, “How fast we live” fa riferimento alla nostra concezione del tempo, tema che ritorna anche in “Tutto qui” e che mi è molto caro. Forse perché sto crescendo, ma sono ossessionato dal tempo che passa.
Girerai un video di “Tutto qui”?
C’è un video in arrivo, un piccolo racconto personale in cui ci sarà parecchio di “quel bambino in riva al mare”…
Scrivere canzoni in inglese è diverso dallo scriverle in italiano, emergono pezzi di anima diversi, concordi? In che modo trovi l’ispirazione verso una lingua o l’altra?
Il mio percorso è ondivago: ho iniziato con l’italiano, ai tempi dei Nebel; quando ho iniziato a fare musica da solo mi è venuto naturale scrivere in inglese, ora è tornato l’amore per la nostra lingua. Credo sia più una questione di fasi e di contesto che di ispirazione: l’inglese è la lingua dei miei sogni, del mio inconscio. Ma ora voglio essere diretto, preciso, chirurgico, e più scrivo in italiano più mi viene voglia di continuare a farlo. Magari tra qualche anno passerò allo spagnolo.
Quali sono i tuoi prossimi progetti? Dopo “Tutto qui” farai uscire un altro singolo da “How fast we live” o stai lavorando ad altro materiale?
Ho un bel po’ di materiale scritto durante la fase di quarantena: quello è stato un momento di stasi esteriore ma non interiore e ho buttato giù un sacco di idee che mi giravano in testa da un anno, ho trovato la chiave, il tempo e l’energia per farlo. Conto di tornare a lavorarci presto e chissà che già dal prossimo autunno non riesca a fare uscire qualcosa. Dei singoli, un EP, un disco, qualcosa di live: sono curioso di scoprire cosa arriverà.
Come ricordi l’esperienza con i Contrada Beat poi diventati Nebel? Quanto hanno influito sul tuo percorso musicale come solista?
Gli anni passati nella band sono stati strepitosi e mi hanno insegnato tanto di quello che so del fare musica. Ogni tanto mi manca la condivisione, perché la musica è un lavoro di insieme e a volte da soli è più faticoso. Quello che più di tutto mi è rimasto però è la curiosità: i Nebel hanno avuto una storia breve ma piuttosto gloriosa ripensandoci, e la chiave di quella freschezza era la perfetta miscela del background di tutti e 5. Riascoltando le canzoni prodotte insieme ora – a distanza di 10 anni – si sente precisa la voglia di non avere confini: questo approccio è rimasto mio, nella mia discografia ideale non c’è un disco uguale a un altro.
Con chi duetteresti volentieri?
In Italia Carmen Consoli e Niccolò Fabi, fuori direi le Haim e John Mayer.
Roberta Usardi
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