“Anelante” di Rezza/Mastrella al Teatro Colosseo di Torino: quando il buon senso abbandona il palco gli attori ballano
Puta caso una sera gli amici ti portano a teatro. Nello specifico, al Colosseo di Torino, dove per un paio di sere si è spostato il TPE, che di solito è di stanza all’Astra. C’è Antonio Rezza! C’è Antonio Rezza! E tu ricordi di aver visto e/o letto qualcosa, e che magari ti era anche piaciuto. Poi qualcuno cita il Leone d’Oro alla Carriera che ha ricevuto con Flavia Mastrella alla Biennale di Venezia 2018. Quando chiedi ai tuoi accompagnatori un’opinione su di lui, ti rispondono banalmente che è rezzacentrico. Ti batti la mano sulla fronte e ti chiedi perché non l’hai capito da solo. Quindi si crea anche una certa aspettativa: c’è fermento nell’aere, cosa succederà? Nessuno lo sa, ma di sicuro sarà fantastico. Nel foyer, i molti proseliti discutono e affabulano lo spettacolo, perché molto probabilmente lo hanno già visto: “Anelante” – questo è il titolo – ha debuttato infatti cinque anni fa, ed è la terza creatura del duo Rezza/Mastrella dopo “7 – 14 – 21 – 28” e “Fratto_X”. Ora, di sicuro non si può dire che l’azione non sia stata sconvolgente, perché è vero che si assiste a delle azioni e si ascoltano dei discorsi che stravolgono qualunque senso comune non solo sul teatro, ma sul mondo, sulla realtà. Però tutto questo chiasso è funzionale a qualcosa? E se una funzione non deve esserci, allora perché sto scrivendo?
Il sipario è già spalancato, quando si prende posto. La scenografia di Flavia Mastrella svetta dal fondo del palco: è gradevole, sembra una città di Sironi, ma colorata con le tinte squillanti di Depero. Uno spazio-palazzi, ciminiere, castelli, appartamenti, labirinti? Non si sa – che a primo acchito forse diverte, e che poi un po’ intimorisce. Nell’attesa, si legge il comunicato stampa: In uno spazio privo di volume – raccontano Rezzamastrella – il muro piatto chiude alla vista la carne rituale che esplode e si ribella. Non c’è dialogo per chi si parla sotto. Un matematico scrive a voce alta, un lettore parla mentre legge e non capisce ciò che legge ma solo ciò che dice. Con la saggezza senile l’adolescente, completamente in contrasto col buon senso, sguazza nel recinto circondato dalle cospirazioni. Spia, senza essere visto, personaggi che in piena vita si lasciano trasportare dagli eventi, perdizione e delirio lungo il muro. Il silenzio della morte contro l’oratoria patologica, un contrasto tra rumori, graffi e parole risonanti. Il suono stravolge il rimasuglio di un concetto e lo depaupera. Spazio alla logorrea, dissenteria della bocca in avaria, scarico intestinale dalla parte meno congeniale. Ci si piega troppo spesso con l’assurdo dietro, e si fanno i conti dei traumi passati. Così l’essere inferiore cerca conforto nell’impegno civile. E con la morte altrui ritorna l’amor proprio. Imbarazzati, confusi, perplessi, mettiamo via il comunicato dopo due o tre tentativi di lettura, perché non capiamo ma non abbiamo l’audacia di dire ad alta voce che non ci risulta intelligibile. E poi tanto si sa, qualcuno sorriderebbe beffardo e direbbe che è così che dev’essere.
Lo spettacolo comincia. Buio. Poi arriva lui, Rezza, e si scopre che interpreta quel matematico di cui si parla nel comunicato. Parla ma più che altro straparla, disegna per terra calcoli immaginari e assurdi, che divertono come le battute di Bergonzoni o come le retoriche di Marzullo. Il pubblico ride, si rilassa, quelli che non avevano capito di cosa si trattava si rincuorano e pensano che, in fin de conti, un po’ di sano non-sense lo si può affrontare a testa alta. Quelli che invece già hanno visto lo spettacolo li riconosci, perché a ogni frase sussurrano cose tipo genio, visionario, pazzesco, incredibile. Segue un segmento di critica freudiana da slogarsi la mascella: era pazzo quello là! A te te piace tu madre, a te te piace tu padre! Insomma il povero Sigmund diventa un cretino, uno sprovveduto che ha avuto successo solo perché dopo un po’ alla gente viene sonno. E anche qui, giù a ridere. Si va avanti con una teoria editoriale dissacrante, secondo cui gli scrittori obbligano i lettori al silenzio. Poi c’è il G20, ma gli attori sul palco sono solo cinque, e quindi non si arriva mai a quota venti e allora si tenta un G8, ma la quota non si raggiunge lo stesso, e dunque rimane solo il G5. Risate. Poi però succede che impazziscono tutti, letteralmente: Rezza mima un amplesso con un’attrice dietro la scenografia, poi riemerge nudo davanti a tutti. Poi parte una danza di glutei, di sberle ritmate su questi ultimi, di versi striduli e tribali, di masturbazioni mimate. Un casino. Non che ci siano problemi in questo: ognuno deve fare tutto il casino che vuole, ma se non c’è didascalia sarebbe auspicabile altra ilarità, che ha colto solo alcuni. C’era quindi chi ha continuato a ridere, chi ha smesso, mentre i fedelissimi hanno continuato a esclamare genio, visionario, pazzesco, incredibile . Sul palco con Rezza: Ivan Bellavista, Manolo Muoio, Chiara A. Perrini, Enzo Di Norscia. Tutti impegnati nella danze, nei discorsi… tutti molto professionali, molto capaci. La questione si conclude con un lungo monologo qua e là asciugabile che Rezza porta avanti da solo, al buio. Poi gli applausi: tanti, fragorosi e poi anche meritati. Uscendo, le menti imbevute di raziocinio si chiederanno cos’hanno appena visto, ma gli esperti del settore ci insegnano che quella è la domanda sbagliata da porsi. Quindi forse è questo il quid di “Anelante”: la capacità di annientare così tanto il buon senso che lo spettatore non può neanche interrogarsi sui contenuti, non perché gli stessi non ci siano, ma perché si sviluppano su un asse così surreale da risultare inafferrabili.
Davide Maria Azzarello