Ancora il corpo e la voce per Marcido Marcidorjs: il debutto delle Baccanti coprodotte dallo Stabile

Venerdì 7 marzo siamo stati ospiti del Teatro Gobetti di Torino per la terzultima replica delle Baccanti di Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa, l’autorevole e leggendaria compagnia fondata in questa città nel 1984 da Marco Isidori, regista, Maria Luisa Abate, attrice, e Daniela Dal Cin, scenografa; attorno ai quali hanno orbitato tantissimi altri, e fra cui si è distinto dal 2000 Paolo Oricco. Per quest’occasione come per altri spettacoli del passato, il collettivo ha creato una convinta opera di corpo e voce, dove i significanti contano più dei significati perché l’enfasi si pone sul suono, sul movimento e sulle assenze di questi due primigeni ingredienti di un Teatro Totale, assoluto, futuristico alla nascita ed ora autocelebrativo ma non per questo stucchevole: il gruppo di Isidori, che tutti abbreviamo in Marcido, è una bottega teatrale compresa nel proprio ruolo di artigiano preindustriale, e gli artigiani non cambiano metodi né possono evolvere o migliorare col passare svagato e superficiale delle mode. La loro opera non vuole e non potrebbe mai stupire, raccontare, riferire; la loro opera vuole essere urlata perché è coerente con sé stessa mentre disprezza quello che c’è fuori dalla sala, dove tutti sono obbligati ad aggiornarsi, e reinventarsi, in un vortice di scambievoli ambizioni e false lusinghe. E quelle sì che son stucchevoli.
In questi quattro decenni hanno affrontato Beckett, Eschilo, le Estasi di Maria Maddalena De’ Pazzi, Andersen, Molière, Amleto, Lear, Pavese, Copperfield, e fra gli ultimi Memorie dal sottosuolo. Noi nel 2020 abbiamo avuto il mutilato piacere di recensire Una relazione per l’accademia, da Kafka (c’era il covid e gli spettacoli si guardavano in diretta streaming) e lo scorso autunno abbiamo finalmente assistito, nel Teatro MarcidoFilm di corso Brescia, al monologo di Loretta Strong, scritto per loro dal drammaturgo argentino Copi nel 2010. Parallelo al vasto repertorio, insomma, scorre impetuosa una ricerca tecnica affine a registi come Grotowski, col suo teatro povero, e interpreti come Bene. C’è dell’anacronismo, sì, ma è voluto; c’è lo sdegno per il multimediale, e con un colpo di coda anche lo snobismo – a questo punto comprensibilissimo – per chi crede nell’ineluttabile senza lottare sulla sua piccola scena, nelle nostre piccole vite fondamentali.
Sulla scheda di sala si legge: Istruzioni per l’uso del Divino Amore: Mana Enigmistico / Le Baccanti Di Euripide che “precipitano” a contatto col reagente Marcido. È la prima volta che lavorano su Euripide, e dall’ultima e più complessa tragedia del poeta di Salamina hanno scelto di trarre innanzitutto un grande e terribile protagonista: il Dioniso di Paolo Oricco è la colonna dell’azione recitata, un dio grottesco e arrogante, catalizzatore dei contrasti umani ma pure della tecnica della messinscena: l’oscillazione vertiginosa fra la frenesia di un teatro-gioco trascinato agli estremi, e il più crudo senso di smitizzazione. Dioniso è il simbolo di ciò che scorre fra il raziocinio e il suo sbriciolarsi; è il dio del dubbio rivendicato, delle ambiguità, del paradosso tutto contemporaneo per cui forse è impossibile esperire il tragico per come lo intendevano e lo rappresentavano i greci, e allora non rimane che portare sul palco l’impossibilità della messinscena stessa, abbracciando così anche le zone più prolisse e statiche mentre comunque, va detto, qualcuno (dalla regia e con le scene e i costumi) ci fa la grazia di condire l’azione (e la staticità) con certi fronzoli e sotterfugi estetici che a una prima lettura possono sembrare, per quanto grandiosamente minute, le uniche soluzioni innovative; ma l’innovazione, qui dove tutto sembra paradossale e invece è solo duale, sta per l’appunto nel selezionare pochissime iconiche scuciture su ciò che per gola vorremmo ci fosse servito nella sua interezza. Oltre ai riferimenti specifici, apprezzabili se si conosce il riferimento (penso a Oricco quando canta una parodia di Ninì Tirabusciò); e ai corpi e le voci degli attori, quel che veramente lo spettatore si porta a casa è il ricordo di ciò che ha, banalmente, guardato. Immagini. Ovvero: le prove degli interpreti – Maria Luisa Abate, Tiresia; Ottavia Della Porta, Penteo; Valentina Battistone, Agave; Marco Isidori, Cadmo – sono le prove di una coro che dimostra di saper gestire l’intensità sguinzagliandola, e dunque vanno applauditi; e però è l’immaginario scenografico e costumistico di Daniela Dal Cin che più di tutti merita di essere elogiato per coerenza e puntualità, poiché plasticamente e senza il mezzo umano del recitare-giocare restituisce un significante (sì, è una pittura sonora, in qualche modo) di un contenuto, la trama delle Baccanti, che a questo punto possiamo anche non conoscere poiché si è trattato solo di un’ispirazione, un germoglio.
Davide Maria Azzarello
Fotografia di Giorgio Sottile