“AMLETO + DIE FORTINBRASMASCHINE”, o dell’attore senza spettacolo
“AMLETO + DIE FORTINBRASMASCHINE”, un po’ meno che Amleto, un po’ più che Fortebraccio, due figure speculari della stessa tragedia, una tragedia di orfani, dove nessuno è padre a un altro, in cui l’angoscia dell’essere e la retorica dell’attore vanno a braccetto. Con una scenografia riadattata per gli spazi del TeatroBasilica, Roberto Latini ha fatto ritorno nella Capitale dal 27 al 30 ottobre, presentando un’opera originale e innovativa, forte delle parole di Shakespeare e dell’architettura di Heiner Müller. Del drammaturgo tedesco la Compagnia Fortebraccio (Roberto Latini, Gianluca Misiti, Max Mugnai) ha conservato la struttura, la divisione per capitoli, e ha composto un meccanismo, un dispositivo scenico dove il comico si catapulta scandalosamente nel tragico. Die Hamletmaschine è diventato così modello e ispirazione: “Album di Famiglia; L’Europa delle donne; Scherzo; Pest a Buda Battaglia per la Groenlandia”.
Nel testo, concepito con la drammaturga Barba Weigel, ritroviamo un Amleto che ha smesso di stare in riva al mare, con alle spalle le rovine d’Europa già percepite da Heiner Müller, mentre uno dei figli di Ecuba, Polidoro, vittima innocente anche lui di vendette nefaste, approda a quelle stesse coste. In una scena che diventa riflesso di vita, Latini prende la riscrittura di una riscrittura e ci guarda sotto, là sotto dove le parole non riescono da sole a dire. Lì, nel rovello che le ha generate, lì, dove “i pensieri succhiano sangue alle immagini”, destruttura i significati, il suo dramma non avviene più. Non sta più al gioco. Lascia da parte le risposte e si tiene le domande. Una, la più importante, da cui tutto scaturisce, recita: “Where is the sight?”, (“Dov’è questa visione?”). Visione, termine quanto mai contemporaneo, pronunciato nel luogo deputato per eccellenza al vedere. Come Edipo, Amleto, assume i caratteri precipui dell’uomo moderno, patisce nella propria carne il disagio, la pena, il dolore di essere a metà. Esortato dal fantasma del padre a vendicare il suo assassinio, ritarda perennemente il compito. Il regno che eredita è divorato dal cieco potere e della corruzione dilagante. Latini, in un kimono bianco, regale, procede per sovrapposizioni e stratificazioni, canta, non parla più. Declama il terzo articolo della Costituzione che assume il principio di uguaglianza tra tutti i cittadini come un diritto fondamentale. Il teatro come grande città con tante cittadinanze. La sua è una voce che vola dentro, che si fa tremolio della carne, movimento, danza, baratro. Recita l’essere o non essere al contrario, con il virtuosismo che Paganini usava in musica. E come lui, non ripete mai. Ogni sera non sappiamo ciò che come spettatori avremo di fronte, se non il fatto di aver aderito ad un appuntamento. Il teatro, dunque, come fatalità, come occasione imponderabile, dove l’elemento di inquietudine immerge costantemente chi vi assiste. Non conta di chi è il dramma, se la parte è recitata con gran classe. Contano le parole e quello che esse evocano, quell’altrove che seduce perché non è mai là dove si pensa. È a questa enfasi dell’immaginazione che Latini resta fedele, come grande attore – autore, trasmettitore di se stesso. È in questo lasciarsi dire che si genera la poesia, il meraviglioso umano in grado di commuovere.
Sul finale prende sempre più piede l’uso dell’ elettronica che non si limita a vestire la voce, ma si fa voce essa stessa. Quella voce che ci mostra Ofelia galleggiare nell’acqua per l’amore e per i fiori, come nel dipinto del preraffaellita John Everett Millais, quella voce che fa volute nell’aria con l’apparizione di Molly Bloom dell’Ulisse di Joyce, rendendo omaggio per sperimentazione e ardire al “Past Eve and Adam’s” di Leo De Berardinis. L’esigenza di lasciare una traccia, di esporre un’idea che sia coscienza critica, e ancora il dialogo con i morti che non deve interrompersi fino a che non ci consegnano la parte di futuro che è stata sepolta con loro, resta una costante nel teatro di Latini. Perché ciò che è morto, non è morto nella storia. “Morte, tu morrai”, scriveva John Donne.
Diana Morea