Al Teatro Carignano, Dini con due spettacoli per Prato Inglese: Romeo e Giulietta e un ipotetico sequel scritto da Sharman Macdonald
Mentre sfogliamo il programma della stagione che ripartirà a settembre, c’è ancora tempo per godersi un ultimo spettacolo. Anzi, due.
L’iniziativa estiva del Teatro Stabile di Torino, in scena al Carignano e denominata Prato inglese perché di anno in anno vengono proposti i grandi classici shakespeariani, è cominciata il 18 giugno e si concluderà il 14 luglio: in questi giorni si alternano Romeo e Giulietta per la regia di Filippo Dini e After Juliet di Sharman Macdonald, ipotetico sequel delle vicende che portano alla morte dei due giovani. Noi li abbiamo visti entrambi, venerdì 5 e sabato 6, ma partiamo dall’inizio.
Sipario aperto su parco fatiscente. Il pubblico confluisce in sala e la scena, di Gregorio Zurla, è già lì: un girello coi sedili di ferro, uno scivolo arrugginito, la cabina ossidata e senza vetri di una ruota panoramica. Sul girello c’è una coreuta. Si alza, va al centro e introduce la vicenda, ma nel buio scoppia una lite per una questione di posti: una coppia è in ritardo e qualcuno ne ha approfittato. Fioccano i sibili degli astanti. Sssh. La coreuta è imbarazzata, così non ce la faccio, dice. Interviene una maschera ma quelli intanto sono arrivati alle mani e la maschera cade a terra sull’erba sintetica. Un ragazzo le si avvicina per aiutarla e lei dice a denti stretti che fa parte dello spettacolo, ma anche altri si sono alzati. Improvvisamente dal fondo della platea e dai palchetti accorrono altri attori, sbraitando, e lo scontro si sposta sul palco. In effetti l’episodio zero della trama originale è la rissa tra le due servitù interrotta dal principe Escalo. Il fulcro vero della storia non è l’amore, semmai la violenza, ed è questo il filtro attraverso il quale giudicare questo inizio metaforico, molto peculiare, che però potrebbe anche infastidire e per ovvie ragioni. La sistemazione drammaturgica è fantasiosa, divertita, ammiccante ma pure smaliziata: il testo è una cosa viva e il destinatario deve intuire quali componenti della sua vita collimano coi contenuti rappresentati. Come si può fare? La regia si affida ad alcuni espedienti: la madre di Giulietta tracanna goccine fino a strafarsi, la balia parla in barese, tutti i personaggi maschili urlano invece di parlare; e poi Pietro, il servo della balia (interpretato da una donna, Maria Teresa Castello, e da una bambina, Greta Petronillo) il quale parla (a voce doppia) usando una specie di gramelot che pare condensare gli echi di dialetti diversi, tutti incomprensibili. E poi c’è Romeo, interpretato da una donna. Si può fingere che questa cosa non salti all’occhio, o si può con calma e coraggio analizzare la scelta per notare che è l’unico caso eclatante del cast, per rendersi conto infine che forse non si tratta di questioni di genere, ma di un significato ulteriore che si è voluto agganciare: se la coppia è archetipica le vie percorribili sono quasi infinite.
Sono molte le scelte felici della regia. Una scena indubbiamente riuscita e potente è il celebre momento notturno del balcone (Cosa c’è in un nome? Una rosa profuma anche con un altro nome…). Giulietta è in uno dei palchetti, Romeo sul lato opposto. Le teste degli astanti si girano a ogni frase. Cala la nebbia e Giulietta cammina su un filo invisibile. Faranno l’amore nella cabina della ruota panoramica, che si alzerà in volo un’ultima magica volta. Ma il massacro incombe: è l’unica certezza. E la vera vittima è la gioventù, condannata dal sistema che insegue sempre l’autoconservazione. E il contorno di questa violenza è l’ipocrisia, coi genitori che piangono i figli senza rendersi conto che tutto quel Male viene perpetrato anche grazie a loro. In questo senso si tratta di un’occasione teatrale autorevolissima, perché i giovani sono sempre un problema: quando chiedono di poter studiare, quando pretendono di amare chi vogliono, quando bloccano il traffico perché arrivare a lavoro in orario non conta più: se stiamo per estinguerci scendi dalla macchina e ne parliamo e troviamo una soluzione. È di pochi giorni fa la notizia che in questo paese non si potrà più manifestare liberamente, in tal senso, pena la reclusione. Intanto però siamo circondati dal caporalato, dall’evasione fiscale, dai conflitti d’interesse. Nella storia contemporanea la giovinezza è stata uccisa, forse esiliata, se siamo fortunati. E non solo oggi: forse questa stessa morte è un archetipo, visto che se n’è occupato Shakespeare cinque secoli orsono.
L’allestimento, comunque, risulta quasi monco se non si va a vedere anche After Juliet, che apparentemente si distacca dalla poetica del grande drammaturgo per dedicarsi ad altro, ma in realtà Shakespeare non se ne va: certo, il linguaggio viene appiattito, ma neanche sempre; per esempio il monologo di Rosalina al centro dello spettacolo (quasi un quarto d’ora) a tratti ricorda Amleto. Siamo a Verona ma anche a Edimburgo, a Berlino, a Bologna. La pace instaurata non regge, è stata evocata ma mai praticata: i giovani continuano a odiarsi come si odiavano i loro genitori. Perennemente terrorizzati, attendono l’arrivo di un nemico che c’è e non c’è: nel libretto di sala Macdonald spiega questo concetto con un romanzo post apocalittico, La strada di Cormac McCarthy, Pulitzer Narrativa 2007. Questa seconda parte, immaginata ma verosimile, è ruvida, dolorosa, disperata e fantasmatica. L’obiettivo, perseguito con professionalità, era di risolvere quelle questioni che la trama canonica non affronta: siamo in un non luogo di barili, cemento, scale antincendio; retro di un palazzo edoardiano, architettura dell’abbandono; e qui emerge una nuova protagonista, Rosalina, l’ex di Romeo incattivita, soldatessa Capuleti e potenziale leader. È amata da Benvolio Montecchi, che a sua volta è desiderato da un’altra Capuleti ancora. Aspettano qualcosa, temono l’agguato. Rhona Capuleti, cugina di Giulietta, canticchia un motivetto. È il jingle del Mulino Bianco. Esiste una famiglia perfetta? Si, forse ce l’abbiamo davanti: è questo gruppo di squatters che non smettono mai di fumare, drogarsi, consumarsi. C’è un murales che rappresenta Giulietta e Romeo, c’è un pianoforte, un flauto traverso, il temporale e gli elicotteri; e la tomba di Giulietta su cui Rosalina consuma il suo pazzesco monologo dilaniato, arrivando a masturbarsi mentre parla male di lei e non può dimenticare l’amore per lui. Una delle questioni principali di questa nuova trama concerne il processo, annunciato con gli altoparlanti: oggi apriremmo, si spera, un fascicolo per istigazione al suicidio; mentre qui gli imputati sono la Balia, ribattezzata Angelica, che sapeva del matrimonio segreto e non ha detto nulla; frate Lorenzo, perché li ha sposati in segreto; lo speziale che ha fornito a Romeo il veleno; e infine il servo Pietro, ma nessuno sa il perché, dice Rhona. Il prete è assolto da tutte le accuse, ovviamente, e per fortuna anche Pietro. Angelica viene esiliata e prima di andarsene impedisce a Gianni e Lorenzo Capuleti di ammazzare Benvolio. Infine lo speziale è condannato all’impiccagione. Rosalina e Petruccio, fratello di Tebaldo, si scontrano: lei è un’anarchica violenta che non crede nella pace; lui è più riformista, di buon senso, continua a ripetere che non si sa e non si conoscerà mai la fonte della faida che li ha portati lì. Ma lei è accecata. La mettono ai voti. Gli altri Capuleti si schierano. Nella scena finale Bianca, una cugina di Giulietta che è uscita di testa, nota quanto sia triste quel motivetto che noi sappiamo essere un jingle specifico, allora prende il violino per accompagnare la propria voce e canta per intero quello che la coreuta, all’inizio del primo spettacolo, non aveva potuto concludere. Luci spente. Applausi scroscianti, convinti.
Questo Prato inglese, per quanto vagamente perfettibile, rappresenta una sana ricerca di alcuni significati shakespeariani. La regia sembra aver ponderato molto a fondo alcune questioni, e le interpretazioni dei diplomati dello Stabile soddisfano quasi sempre. Per alcuni c’è ancora del lavoro da fare, per esempio a livello gestuale, ma forse questa è anche una conseguenza della gestione spaziale: tante persone su un palco già piccolo, e assottigliato dalla scenografia. Gli interpreti più convincenti sono sicuramente Maria Trenta, Rosalina; la Donna Capuleti di Sara Gedeone; Maria Teresa Castello e la sua Rhona. Alice Fazzi e Martina Montini sono Romeo e Giulietta (vivi, e spettri in After Juliet): entrambe molto capaci, molto convincenti. Val la pena di citare inoltre Ilaria Campani, Balia; Matteo Federici (prima Paride, poi Benvolio); Francesco Halupca (Escalo e Petruccio); infine Diego Pleuteri e Francesco Bottin, ovvero Gianni e Lorenzo. Inoltre, gli spettacoli funzionano anche grazie alle luci di Francesco Dell’Elba, ai costumi di Alessio Rosati, ai suoni di Massimo Cordovani.
Davide Maria Azzarello
Fotografia di Luigi De Palma