Al Regio di Torino gli amori divertiti e divertenti dell’ “Italiana in Algeri”
Divertissement arlecchinesco, esotismo in trasferta, sessismo bifronte, parodie malcelate delle cariche istituzionali, equivoci in gran quantità. Ecco, in breve, gli ingredienti principali che il giovanissimo Gioachino Rossini e il non più giovane Angelo Anelli gettarono nel calderone circa duecento anni fa. Lo stufato che ne uscì, proposto per la prima volta nel 1813 al Teatro San Benedetto di Venezia (dopo appena un mese di cottura), fu “L’Italiana in Algeri”, celeberrima opera buffa in due atti e apice della commedia dell’arte post-goldoniana. E il pubblico – che, come aveva acutamente notato Stendhal in Vita di Rossini, era interessato alle arie piacevoli; più leggere che appassionate, all’estro e al brio di una follia musicale che non richiami affatto il reale e il triste della vita – aveva chiaramente apprezzato il risultato, che forse oggi definiremmo pop-commerciale. Rossini sapeva cosa volevano gli spettatori, e glielo dava. Il che non significa, tuttavia, che non avesse dei contenuti da proporre: in fin dei conti, in un imbuto di (proto?)femminismo, è Isabella -l’italiana – a trionfare. E in generale, poi, son le mogli, fra noi, quelle che plasmano i mariti. Il problema, se di problema si vuole parlare, è che Rossini ha semplicemente rimescolato le carte in tavola senza minimamente turbare quel pubblico che con quelle carte ci giocava tutti i giorni. Certo, vien da chiedersi: è necessario un turbamento? Forse sì, forse no. Forse non esiste una risposta univoca a questa domanda.
Secondo molti studiosi, comunque, la drammaturgia musicale di Rossini presenta una certa dose di propositiva, raffinata ed articolata visionarietà. Però è anche vero che, come spiega il musicologo Andrea Malvano, per L’italiana in Algeri come per tante altre opere di Rossini “l’intreccio non ha poi grande importanza […] tant’è vero che Stendhal scriveva “Non bisogna avere l’imprudenza di leggere il libretto”. Rossini riesce a raggiungere il comico, lavorando su categorie squisitamente musicali. Ciò che conta è una costruzione formale che raggiunge i picchi espressivi attraverso una sapiente alternanza tra momenti di tensione e distensione […]. La profondità interiore dei personaggi non serve.”
È da dieci anni, ormai, che il Teatro Regio di Torino propone una versione di questa turcheria belcantistica che fa molto discutere – nei foyer e tra i banchi degli universitari, dato che i giornali sembrano piuttosto disinteressati alle disputationes culturali – perché secondo alcuni strizza troppo l’occhio al Rossini farsesco, quello delle burle ambigue e delle risate sguaiate. È vero che la regia di Vittorio Borrelli – diversa da quella, storica e storicizzata, di Ugo Gregoretti e Eugenio Guglielminetti – è dedicata al grande pubblico, ma è forse sbagliato dedicare una messinscena anche alle masse? Se qualcuno è così elitista da pensarla così, a lui la parola. Perché dopotutto, a voi lettori l’ardua sentenza. È innegabile che questa interpretazione sia in gran parte ridanciana, ma d’altronde quella del divertissement nudo e crudo è una via percorribile e legittima: non è una soluzione sbagliata o giusta, è solo una delle possibili prospettive dalle quali si può affrontare Rossini. E peraltro, in queste circostanze, anche le scelte di Claudia Boasso e Santuzza Calì, rispettivamente scenografa e costumista, intercettano perfettamente la visione borrelliana del cigno di Pesaro.
Dal punto di vista musicale, il lavoro del direttore d’orchestra Alessandro De Marchi rimane ineccepibile, anche perché spesso ricrea una bolla di sensibilità sonora che ben si congloba all’azione canora. Sicuramente, poi, vanno elogiate la capacità di Xabier Anduaga, tenore spagnolo che a soli ventiquattro anni interpreta splendidamente lo schiavo Lindoro, e di Martina Belli, giovane talento della Pavarotti Foundation e mezzosoprano che per l’occasione ha dovuto scendere al contralto richiesto dall’Isabella del libretto.
Per concludere, considerati tutti gli aspetti di cui si compone la resa di una rappresentazione operistica, va sottolineato che il risultato – proposto al pubblico, per un totale di quattro repliche, tra il 22 e il 28 maggio – è molto grazioso. Certo, non è sconvolgente. Ma se vogliamo ritrovarci sconvolti dopo uno spettacolo, dobbiamo avere l’accortezza di non scegliere Rossini, perché è probabile che lui abbia altro da proporci.
Davide Maria Azzarello